Aggiornato il 10/12/23 at 06:55 pm
Opinione di Gianni Sartori ————– Il sospetto di strumentalizzazione (appropriazione indebita) mi era già venuto vedendo alle spalle di una deputata europea (intervenuta in una trasmissione televisiva) un vistoso striscione con la scritta “Donna, Vita, Liberta’”. Fuori luogo, a mio avviso, visto che non si era mai particolarmente distinta per radicali in campo politico-sociale. Del resto non era nemmeno la prima volta che accadeva (vedi ancora nel 2016: https://centrostudidialogo.com/2016/03/19/la-societa-dello-spettacolo-mercifica-e-banalizza-tutto-o-almeno-ci-prova-ma-con-le-donne-curde-non-sembra-tanto-facile-di-gianni-sartori/).
Ulteriore conferma è venuta, sempre a mio avviso, dall’iniziativa del 6 e 7 dicembre che si è tenuta al Parlamento europeo.
Ossia la 18° Conferenza Internazionale sull’UE, la Turchia e i Curdi della Commissione civica dell’UE e della Turchia (EUTCC).
Interessante assai il dibattito che si svolto con la tavola rotonda “Vivere la libertà – Prospettive delle donne” cui hanno presenziato docenti universitari come Dastan Jasim e Soheila Shahriari, Elif Kaya del Centro di Jineologia di Bruxelles, la deputata curdo-tedesca Özlem Alev Demirel (il compito di moderare il dibattito era affidato a Shilan Fouad).
Per Dastan Jasim “gli Stati dell’Unione Europea e della NATO si vanno appropriando di alcuni aspetti della lotta delle donne curde adottando una forma di “feminist washing”, utilizzandoi principi di “Jin, Jiyan, Azadi” per i loro interessi geostrategici e per la loro egemonia”.
“Ma- ha sottolineato – si guardano bene dall’opporsi alla Turchia”.
Ricordando poi come la ministra tedesca degli Affari Esteri Annalena Baerbock abbia “adottato “Jin, Jiyan, Azadi” per le donne dell’Afghanistan, ma la Germania non riconosce che questa filosofia proviene dai Curdi e della resistenza dei Curdi”.
Quanto alla moderatrice del dibattito, Shilan Fouad, nel suo intervento ha precisato che “la dinamica delle donne curde che resistono per la libertà costituisce un’ampia eredità nei quattro parti del Kurdistan. Da Layla Qasim a Leyla Zana (v. https://www.labottegadelbarbieri.org/siamo-nati-curdi-vogliamo-convivere-ma-dovete-accettare-la-nostra-identita/), possiamo riconoscere i semi piantati che sono germinati in “Jin, Jiyan, Azadi”.
Soheila Shahriari (curda iraniana, attualmente docente universitaria a Parigi) ha insistito sull’importanza di utilizzare il vero nome – curdo – di Jina Amini, e non quello di Mahsa Amini (nome impostole dal regime iraniano). Infatti “non si tratta semplicemente di nomi ma di simboli, di idee”.
Per Shahriari appare evidente che “le donne del Rojava hanno creato una delle società più progressiste del pianeta” resistendo all’embargo, alle invasioni e alla lotta contro lo Stato islamico. Il Confederalisno democratico ha fornito gli indispensabili principi filosofici in base ai quali il movimento femminista curdo “propone un cambiamento, una trasformazione radicale della società. Non delle semplici riforme. La Rivoluzione del Rojava può essere considerata come la prima autentica sollevazione delle donne in Medio-Oriente”.
Per Özlem Alev Demirel andrebbe portato sotto i riflettori il “colonialismo turco”. Aggiungendo che “ogni presa di posizione politica femminista che non pretenda il cessate il fuoco sia a Gaza che in Turchia (in riferimento, presumo, al Bakur, i territori curdi sottoposti ad Ankara nda) perde di legittimità”.In sintesi, gli Stati occidentali “devono riconoscere sia i diritti dei Palestinesi che quelli dei Curdi”.
Concludendo che “la libertà delle donne è legata all’autodeterminazione delle persone (donne e uomini) che vivono in condizioni di occupazione”.
Elif Kaya del Centro di Jineologia di Bruxelles ha ricordato come lo slogan “Jin, Jiyan, Azadi” era “nato in una lingua proibita, il curdo”. Quanto al suo autentico significato “è quello di sostenere che una società in cui le donne non sono libere, non può essere considerata una società libera”.
Donne curde come Hevin Khalaf (vedi: http://uikionlus.org/a-due-anni-dal-barbaro-assassino-un-ricordo-di-hevrim-xelef/ et Nagihan Akarsel) sono state assassinate dalla Turchia in base agli stessi orrendi principi che hanno portato all’uccisione di Jina Amini in Iran.
E lo slogan “Jin, Jiyan, Azadi” riguarda entrambe.
Uno sguardo particolare per le donne curde imprigionate avendo “lottato per la pace, la libertà e per la loro identità”.
Da questo punto di vista le carceri costituiscono la prima linea anche della lotta di liberazione dal patriarcato.
Una donna che non ha rinunciato a lottare nemmeno dal fondo di una cella di tipo F (nella prigione di Kandira) è Figen Yuksekdag.Il 25 novembre (Giornata Internazionale della Lotta contro la Violenza sulle Donne) la ex copresidente del Partito Democratico dei Popoli (HDP) – nonostante le comprensibili difficoltà per la situazione in cui si trova – ha potuto fornire alcune risposte alle domande inviatele dalle associazioni delle donne curde. Confermando il suo impegno a fianco di tutte le donne che in quella giornata si sono riappropriate delle strade manifestando contro l’oppressione patriarcale. “Le donne – aveva scritto – non hanno rinunciato a lottare. Anche se il Potere vorrebbe eliminare la loro presenza in ogni campo: dall’economia alla politica, all’amministrazione”.
Avvertendo che “il sistema capitalista e il “sindacato degli uomini” intendono risolvere la questione intensificando l’oppressione”.
Esempi significativi: l’abbandono da parte della Turchia della Convenzione di Istambul, la mancanza di protezione per le donne di fronte alla violenza sessista e la sostanziale difesa degli assassini da parte del Potere giudiziario. Oltre alla cronica carenza di diritti sociali, situazione di cui le donne sono le principali vittime.
Per cui quelle che non rientrano nei percorsi prestabiliti (da altri ovviamente) di “spose e madri, vengono percepite come ostili dalle autorità”.
Del resto le donne in Medio-Oriente (non solamente quelle curde) si trovano a lottare in condizioni estremamente difficili. Da questo punto di vista quanto è avvenuto nel Rojava, una lotta di liberazione in cui le donne rappresentano l’avanguardia, costituisce un autentico “miracolo”.
Tale consapevole sollevazione delle donne curde, sia in Rojava che nel Rojhilat (Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana) “potrà dare frutti vistosi nel prossimo futuro. Sia livello locale che in generale”. Anche in Palestina ovviamente. La situazione di Gaza rimane la stessa di Shengal e di Afrin.
Concludendo il suo intervento (faticosamente fuoriuscito dal carcere) la prigioniera politica Yuksekdag metteva in guardia sulle prese di posizione (“gli attacchi”) del “sindacato degli uomini” , richiamandosi alla necessità che la lotta in difesa delle donne sia “unitaria ed efficace”.
Per una “società senza guerra, senza violenza, senza oppressione” (…). Noi, le donne prigioniere, non possiamo alzare la voce quanto vorremmo, ma la lotta è ovunque, anche qui. E noi ci uniamo a questa lotta. Contro il femminicidio, la guerra , la violenza e l’isolamento”.
Altra questione presa in considerazione è quella delle difficoltà per le donne che non parlano turco di accedere alle cure mediche, in particolare alle diagnosi precoci. Secondo una inchiesta condotta dal Sindacato dei lavoratori e dei servizi sociali (SEC) di Diyarbakır (Amed), le “barriere linguistiche”, una conseguenza della decisione del governo turco di non fornire servizi in lingua curda (nonostante sia la seconda lingua tra quelle parlate nel Paese) provocano ritardi diagnostici significativi, soprattutto per il tumore al seno e al collo dell’utero.
Un prezzo ulteriore (una discriminazione degna dell’apartheid) pagato dalle donne, soprattutto nelle zone rurali.
Addirittura è capitato che ad alcune donne anziane venissero rifiutate le cure ospedaliere (dopo che la malattia era stata diagnosticata) in quanto non c’era un interprete (in qualche caso anche dopo che i familiari della donna ammalata si erano offerti di tradurre).
Da notare che in compenso molti servizi sanitari vengono offerti in varie lingue straniere, soprattutto a beneficio dei turisti.