Sono 5 milioni i palestinesi, ma i curdi sono 25 milioni

Aggiornato il 03/05/18 at 04:33 pm


di Mimmo Candito

Son piombate con un turbinio sfrenato di emozioni fin dentro il cuore antico della Mesopotamia, le feste che stanno impazzando a Gaza e Ramallah. La Palestina è laggiù, quasi sulle sponde del Mediterraneo, lontana dalle montagne di Erbil,……… dalle terre aspre di Dyarbakir, dai pascoli verdi che s’allungano nel nord gelato dell’Iran, lontana anche dalle bombe di Aleppo e dai signori della guerra siriana. Ma da quando, ieri, la bandiera della nuova Palestina si abbandona orgogliosa e legittima al vento freddo dello Hudson, anche a Mosul, Erbil, o Dyarbakir, soffia un vento nuovo. Che non è ancora quello di New York, ma basta comunque a riaccendere fuochi ardenti di speranza. Sono i fuochi del Kurdistan, il fantasma deluso d’uno Stato che tra il ’20 e il ’23 nacque senza mai nascere e però ora vede farsi concrete le illusioni che, ancora dopo un secolo, stanno piantate con forza dentro il cuore della sua gente.
Se sono in 5 milioni i palestinesi che hanno ottenuto un primo riconoscimento delle loro attese, i curdi – che sono 25 milioni – trovano nel voto dell’Onu ragioni ancora più forti per rinnovare la loro rivendicazione d’una patria che sia anche uno Stato. I numeri non sono la storia e nemmeno la forza del diritto, ma anch’essi contano, hanno un peso, impongono scelte, determinano alleanze politiche e, magari, aprono conflitti. E per il Kurdistan i numeri non rappresentano una geografia limitata, comunque omogenea, come per la Palestina, ma invece strappano via frontiere consolidate, storie nazionali, poteri governativi di difficile composizione: quei 25 milioni di curdi vivono, infatti, e sognano una loro patria, divisi tra i 14 milioni di curdi turchi, i 5 milioni di curdi iracheni, i 5 milioni di curdi iraniani, e il milione scarso di curdi siriani. Frantumare le storie politiche di questi paesi per ricompattarle in un unico nuovo spazio omogeneo che dovrebbe avere il nome, appunto, di Kurdistan sarebbe per la storia di quell’area più distruttivo di una gigantesca bomba atomica. Forse farebbe meno vittime dirette, ma certamente imporrebbe il progetto armato (certo, le armi che già sparano in Turchia) d’un sisma che allargherebbe la sua sconvolgente onda d’urto in ogni angolo del pianeta.
La vittoria diplomatico/militare dei palestinesi (sia pure nei limiti reali che gli equilibri strategici del Medio Oriente le impongono) è destinata comunque ad avere una ricaduta diretta sulla intera cosmogonia dei nazionalismi riaccesi nella crisi identitaria provocata dalle fratture della mondializzazione. Pensiamo al “genocidio armeno”, che tuttora crea rancori profondi tra la Turchia e molti paesi d’Europa, pensiamo alle guerriglie nazionaliste in tante parti dell’Asia, pensiamo al Tibet che tanto inquieta Pechino, pensiamo al Kashmir, pensiamo anche a ciò che sta accadendo in Catalogna o che segna ampia parte della vita politica basca. I processi della storia non sono segnati solo dalla razionalità, subiscono spinte e trasformazioni che spesso provocano conseguenze imprevedibili. Moisi ha raccontato di una “geostrategia delle emozioni”, dopo il “clash” delle civiltà immaginato da Huntington. Ci siamo dentro, ma a contare sarà sempre il ruolo delle armi.
fonte:La Stampa

 

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