Turchia, la questione curda

Aggiornato il 03/05/18 at 04:34 pm


di Carla Reschia

I toni ufficiali sono concilianti ma la realtà del territorio parla un linguaggio diverso. Duro e repressivo ……… Torno da un breve giro nel Kurdistan turco, dove ho assistito e partecipato a una serie di incontri con esponenti della minoranza curda e ho visitato alcune città dell’area, tra cui Van, colpita nell’ottobre e novembre scorsi da un disastroso terremoto da cui fatica a riprendersi.
Un’occasione per vedere il volto oscuro e controverso della Turchia, la nazione che è sotto esame per entrare in Europa e si presenta, barando un po’, come una democrazia compiuta in contrasto con le dittature diffuse nell’area.
Certo, il premier Erdogan, è notizia di pochi giorni fa, si è scusato con i curdi, ed è stato definito un momento storico: “È necessario scusarsi in nome e per conto dello Stato. Intendo scusarmi, ed è quello che sto facendo”. Non si parla però dei curdi di oggi, degli arresti a ciclo continuo di parlamentari, amministratori, avvocati e intellettuali, tutti genericamente accusati di fiancheggiare l’odiato Pkk, si parla di un massacro ormai consegnato agli annali della storia. Per la prima volta, infatti, dopo oltre 70 anni, il governo turco chiede scusa per i 14 mila morti di Dersim tra il 1936 e il 1939.
Massacro fin qui negato ed esorcizzato come quello, immane, del popolo armeno e ora, finalmente ammesso anche se con una pesante ipoteca politica, sottolineando cioè come le responsabilità di quei morti siano tutte del Chp (Partito repubblicano del popolo) di Mustafa Kemal Atatürk, che all’epoca governava in un regime monopartitico.
La realtà sul territorio qui e ora però è un po’ diversa, malgrado i segnali di buona volontà come rinominare 65 caserme dell’esercito, abbandonando la dedica agli ufficiali protagonisti della repressione per passare a quella alle vittime.
La forte minoranza curda, pari al 20% degli oltre 70 milioni di turchi, è tutt’altro che pacificata e tutt’altro che serena. Basta vedere città come la bellissima e desolata Djarbakir, lontana mille anni luce dai fasti dell’impero, dove il processo a 152 tra sindaci, ex parlamentari e attivisti di associazioni per i diritti umani appartenenti alla rete Koma Civaken Kurdistan (Unione delle comunità curde) si svolge in un clima da assedio tra blindati, cordoni di polizia schierati attorno a un’aula dove l’uso del curdo è negato perché “lingua sconosciuta” (ma sono ammesse le intercettazioni, tradotte più o meno fedelemente dal curdo dalla polizia) e in assenza – non volontaria – della maggior parte degli imputati.
Lontano dalle dichiarazioni ufficiali l’equazione curdo=pkk=terrorista colpisce amministratori eletti
del principale partito curdo Bdp (Partito per la pace e la democrazia) e ha falcidiato quasi l’intero collegio difensivo di Öcalan, 36 avvocati accusati di aver svolto un ruolo di collegamento tra il capo del Pkk confinato dal 1999 su un’isola del mar di Marmara e i suoi seguaci.
Un ruolo che gli interessati rimasti in libertà, due, definiscono impossibile per le strette misure di sorveglianza, denunciando di aver perso da ottobre ogni contatto con il loro assistito.
In effetti, i numeri non segnalano una distensione dei rapporti: dal 2009 centinaia di persone sono state arrestate per presunti legami con il Kck, e ancora adesso sono 5 i parlamentari dietro le sbarre insieme a molti intellettuali curdi.
Una zona d’ombra assai profonda per un Paese che si dice democratico e, personalmente, un particolare motivo di dolore perché la Turchia, Paese grande, bellissimo, di antichissima cultura e civiltà, popolato da persone che. prese individualmente, sono infinitamente ospitali e gentili, dovrebbe essere, per sua natura e per sua formazione, multiculturale, aperto e davvero democratico.
Fonte:La Stampa

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