LE DONNE DEL KURDISTAN NEI RACCONTI DEI VIAGGIATORI OCCIDENTALI

Aggiornato il 24/03/22 at 11:37 am

di Laura Schrader* —- La recente guerra contro l’Isis nella Regione Kurda in Irak e nel Rojava (Kurdistan occidentale) in Siria ha impressionato il mondo per la presenza in prima linea di donne peshmerga e di donne appartenenti alle formazioni Ypj e Yja-Star.

A causa del silenzio che circonda la scomodissima “questione kurda”- quella del più grande popolo al mondo senza stato, oggetto di feroci politiche di genocidio – l’opinione pubblica internazionale ha scoperto con stupore l’ identità delle donne del Kurdistan, tradizionalmente protagoniste della vita sociale e familiare nonostante  la forzata “conversione “ all’islam del popolo di Zardasht (Zarathustra), ma nell’ultimo secolo represse nel contesto della  “colonizzazione” del Kurdistan.

Quasi trent’anni fa, in un’intervista del 1994 Songul Kucutyuce presidente di Yajk, Associazione Indipendente Donne Kurde mi diceva: “I colonialisti hanno reso i kurdi diversi, alienati dalle loro tradizioni. Mentre nella cultura kurda in passato il ruolo sociale, oltre che familiare, della donna, era in primo piano, nel Kurdistan colonizzato la donna non può partecipare alla vita sociale, quindi non è più compiutamente umana. Con la lotta di liberazione inizia il cambiamento. La donna comincia a diventare quella che era: protagonista anche nella lotta. “Songul Kucutyuce si riferiva in particolare alla Turchia, dove la colonizzazione ha negato per oltre 70 anni l’esistenza dei kurdi e di fatto continua a vietare ogni espressione  della sua identità, e alla militanza delle donne nella guerriglia di resistenza condotta dal Pkk.

 

La tragedia del popolo kurdo si compie alla fine della I Guerra mondiale. Dalla sconfitta della Sublime Porta nascono 26 stati nazionali ma non un Kurdistan, in ossequio a  interessi economici (il petrolio) e geostrategici.   Una parte rimane con l’Iran, il resto è diviso tra Turchia, Irak e Siria. I nuovi confini  dividono pascoli, campi, famiglie. Il Kurdistan diventa una “colonia internazionale” come lo definisce l’accademico turco Ismail Besikci, oppresso e sfruttato da quattro regimi autoritari che ricorrono a politiche di genocidio fisico e culturale nei confronti del popolo “diverso”.

Nei principati kurdi,  feudatari  a volte molto autonomi dell’impero Persiano e dell’impero Ottomano, regnavano la cultura, la lingua,  le millenarie tradizioni del Kurdistan. L’islam  non aveva inciso in pofondità sull’identità culturale. Per fare un esempio: il divieto islamico di fare musica al di fuori del contesto religioso non ebbe alcun ascolto da parte kurda. Musica, danza e la poesia, che si declama con una sorta di canto, sono connaturate nella cultura degli eredi dei Medi, tanto che il famoso etnologo Viltchevsky  parla di “ipertrofia del folklore”. Nei poemi epici, cavallereschi, nei canti d’amore, nelle leggende, nelle ballate, nelle fiabe la donna ha un ruolo protagonista: in amore fa le proprie scelte, si fa sapientemente corteggiare, si diverte a irridere e a maltrattare  qualche malcapitato spasimante.

Una delle forme di poesia popolare più note, il Laùk, tipico di alcune aeree del Kurdistan settentrionale, era composto e cantato esclusivamente dalle donne, ma non perché fossero musiciste di mestiere: a loro spettava il compito di celebrare le gesta dei guerrieri di fronte al pubblico del clan o del villaggio.

Questa condizione della donna,  diversa da quella che si poteva osservare presso altre etnie di religione islamica, colpiva immancabilmente i viaggiatori e le viaggiatrici occidentali che percorrevano quelle regioni:  nelle loro cronache,  i visitatori sempre  si soffermano a descrivere le donne kurde come libere dai veli e dalle costrizioni dell’ Islam,  assertive e perfino un po’ prepotenti con gli uomini della famiglia. Colte e autorevoli le aristocratiche (khanum), esuberanti, vitali e sicure di sè le popolane (yaya).

«Le donne vanno liberamente co’l viso scoperto, e parlano domesticamente co’ tutti gli uomini, tanto del paese quanto stranieri» nota un viaggiatore veneziano vissuto tra il 1586 e il 1652, Pietro Della Valle. “Il Pellegrino” come egli si autodefinisce, è un osservatore perspicace che anticipa le analisi degli studiosi di secoli futuri. Riferisce tra l’ altro che i Kurdi «dagli altri Maomettani sono tenuti poco retti nella fede», cosa che risulta anche a lui stesso; e nel parlare dell’ indipendenza dei Signori kurdi precisa: «I più potenti non professano vassallaggio, ma solo viver sotto protettione d’ uno dei due Re: e talvolta ancora mutano bandiera, quando torna loro conto, come a punto alcuni d’ nostri Potentati d’ Italia». I “Re” erano l’ imperatore di Persia e il Sultano di Costantinopoli.

Il conte di Sercey nel diario di viaggio «La Persia nel 1839-1840» trova «molto curiosa» la danza kurda. «Uomini e donne si tengono per mano, formano un grande cerchio (…) Si nota che le donne kurde, per quanto musulmane, non sono affatto sequestrate (…) Hanno perfino il volto scoperto, il che sarebbe una mostruosità per i figli del Profeta».

Il reportage “Viaggi in Armenia, Kurdistan e Lazistan” di Alessandro De Bianchi capitano italiano nell’ esercito ottomano, è uno dei migliori tra i libri dei viaggiatori in Kurdistan.

«Fin dalla prima volta che dal governo ottomano fui inviato in Asia colla guardia imperiale, cioè nel 1855, mi toccò percorrere una parte della Georgia ottomana e russa, tutta l’ Armenia, il Lazistan e buon tratto del Kurdistan», spiega l’ autore.  “Fervea” allora la guerra turco-russa, ma già dal quel primo servizio il baldo capitano, sempre a cavallo, “istudiò” quelle regioni e raccolse notizie; continuò negli anni successivi finendo per scrivere a Costantinopoli nel 1859 un libro interessante e divertente, ricco di episodi di vita vissuta, di informazioni e di intelligenti analisi sulla situazione di quelle provincie dell’ Impero.

Anche De Bianchi nota la particolarità della condizione femminile nella società kurda: «Le donne kurde stesse, ben aliene dall’ essere tenute in quella reclusione  che rende schiave le turche, stanno quasi sempre a viso scoperto, si fanno vedere e parlano coi forestieri». Anche le vicine armene, secondo De Bianchi che le descrive oscillando tra pietà e indignazione, vivono in schiavitù all’ interno della famiglia.

La libertà delle donne kurde è descritta in modo brillante da Alphonse de Lamartine. Il poeta francese nel suo «Rimembranze di un viaggio in Oriente» del 1853 racconta l’incontro, in Siria, con una grande «tribù di kurdi che sono soliti venire dalle vicine provincie della Persia a passare l’ inverno ora nei piani della Mesopotamia, nei dintorni di Damasco, ora in quelli della Siria, conducendo seco le loro famiglie e il bestiame.» Così Lamartine descrive bambine, ragazze e donne: «Le donne non istavano nè rinchiuse, nè velate, esse erano nude fino alla metà del corpo e soprattutto le giovani dai dieci ai quindici anni. Ogni loro vestimento consisteva in calzoni a larghe crespe, che lasciavano le gambe ed i piedi nudi, e portavano tutte dei braccialetti d’argento al di sopra della caviglia. La parte superiore del corpo era coperta da una camicia di stoffa di cotone ovvero di seta, serrata alla cintura, che lasciava il petto e il collo scoperti. (…) Avevano altresì le reni e il seno quasi corazzati da una collana di piastre infilzate e risuonanti ad ogni passo ch’ esse facevano, come le squame di un serpente.» Insomma, proprio svestite non erano, e può darsi che l’ impressione di nudità sia derivata a Lamartine dal contrasto con le velatissime arabe siriane e con le beduine  dall’ aspetto «feroce e timido» che aveva incontrato prima. A differenza della une e delle altre, le kurde «Non mostravano alcun imbarazzo pei nostri sguardi, nè alcun pudore della loro quasi nudità al cospetto dei maschi della tribù. Gli uomini medesimi non sembrava esercitassero grande autorità sopra di esse, come quelli che accontentavansi di ridere della loro curiosità indiscreta a nostro riguardo, e le respingevano con dolcezza e burlescamente.»   Lamartine  è colpito anche dagli uomini, «generalmente alti, forti, belli e ben fatti» e dal loro abbigliamento: “Le loro vestimenta non appalesavano povertà, ma soltanto negligenza. Molti di essi indossavano delle vesti di seta mista a fili d’ oro o d’ argento e dei mantelli di seta blu foderati di ricche pellicce. Le loro armi erano ugualmente cospicue per le cesellature e le intarsiature d’ oro e d’ argento di cui andavano adorne.»

Ma quel che impressiona veramente il poeta francese è la  personalità delle ragazze  kurde: «Alcune di quelle fanciulle erano sommamente belle e penetranti (…); esse rassomigliavano a giovani provenzali ovvero a napoletane, ma con fronte più alta, portamento più libero, sorriso più franco, maniere più naturali.

La loro fisionomia si imprime profondamente nella memoria, perchè non è dato vedere due volte dei visi di questo genere.»

Nel 1930,  pochi anni dopo la divisione che ha drammaticamente cambiato le condizioni di vita  del Kurdistan,

Agatha Christie partecipa a fianco del marito archeologo ad una spedizione in Mesopotamia, ai confini tra Siria e Irak.   Nel suo libro  “Come, tell me how you live” pubblicato tardivamente nel 1946 disegna alcuni coloriti ritratti di kurde incontrate sul luogo degli scavi:

«Da lontano un gruppetto di donne avanza verso di me. A giudicare dalla gaiezza dei colori, si tratta di donne kurde. Sono indaffarate a estrarre radici e a raccogliere foglie.

Avanzano diritto nella mia direzione; ed eccole sedute in cerchio intorno a me.

Le donne kurde sono allegre e attraenti. Si vestono di colori brillanti. Queste indossano turbanti arancio vivo e vesti verdi, porpora e gialle. Alte, la testa e le spalle erette, così da avere sempre un’ aria fiera. Hanno volti bronzei, dai tratti regolari, le gote rosee e gli occhi solitamente azzurri.»

E continua: «In questa zona il numero dei villaggi kurdi e di quelli arabi si equivale. I due gruppi etnici conducono la stessa vita e hanno la  medesima religione, ma neanche per un istante potrai confondere una donna kurda con una araba. Le donne arabe sono immancabilmente modeste e riservate; quando rivolgi loro la parola stornano il volto; se ti guardano lo fanno da una certa distanza e se sorridono è sempre con ritrosia e tenendo gli occhi bassi. Si vestono soprattutto di nero o con colori scuri. E non esiste donna araba che ardirebbe rivolgere la parola a un uomo! La kurda non ha dubbi sul fatto che vale quanto e più di un uomo! Escono di casa a loro piacere e scherzano con chiunque, trascorrendo le giornate nella massima affabilità. Quando si tratta di dirne quattro ai loro uomini non hanno peli sulla lingua. Gli operai di Jerablus, arabi, che non sono abituati ai kurdi ne sono profondamente colpiti». La scrittrice inglese,  che tratta i membri della spedizione archeologica con ironia a volte sferzante, prova simpatia per le kurde del villaggio e le piacerebbe parlare con loro.

«Si sforzano di farmi intendere a cosa serviranno le piante e le erbe che stanno raccogliendo. Ah, ma è inutile! – continua Christie – Un’ altra esplosione di risate. Si alzano, sorridono, fanno cenni col capo e riprendono il loro vagare. Sembrano grandi fiori dai colori vivaci…

Vivono in tuguri di fango, forse senza possedere nient’ altro che qualche pentola per cucinare, e tuttavia il loro riso e la loro gaiezza sono spontanei. Hanno una visione positiva della vita, condita da un sapore rabelasiano. Sono belle, sanguigne e felici.»

Dal trattato di Losanna del 1923 si è tentato di cancellare il popolo kurdo dalla storia con un secolo di terribile repressione, dai massacri di Dersim al bombardamento chimico di Halabja, dalle stragi di Sanandaj all’operazione Anfal, dalla “cintura araba” alle orribili carceri dei  roghi e delle torture. E’ stato un secolo che ha visto la distruzione di migliaia e migliaia di villaggi, la dispersione e la morte per stenti di innumerevoli famiglie,  decenni di vita precaria nei campi profughi,  la proibizione della lingua e di ogni manifestazione di identità culturale.

La guerra e la vittoria contro l’Isis hanno fatto conoscere al mondo la sua realtà e la sua identità culturale che, valorizzando il ruolo della donna rivoluziona l’area del Medio Oriente.  Il prezzo pagato è stato ed è altissimo e la politica internazionale continua ad ignorare le perduranti politiche di genocidio.

Ma il popolo kurdo non si arrende. L’artista Zehra Dogan, condannata per un disegno che rappresenta una scena della repressione turca, ha raccolto in un libro le sue lettere dal carcere e lo ha intitolato “Avremo anche noi dei bei giorni “. La storia del Kurdistan continua.

NOTE

 Peshmerga (“Di fronte alla morte”) è il nome dei  combattenti del Kurdistan meridionale (Irak) e orientale (Iran) che nei secoli scorsi combattevano contro l’oppressione degli imperi Ottomano e Persiano. Nel corso dell’ultimo secolo – dopo la divisione del Kurdistan tra i nuovi stati di Turchia, Siria e Irak, oltre al pre-esistente Iran,  alla fine della I° guerra mondiale –  i peshmerga hanno condotto in Irak e Iran  una guerra di resistenza contro il genocidio fisico e culturale. Tra loro ci sono sempre state anche le donne, e alcune di esse  sono ricordate come eroine della storia kurda.  Dalla fondazione della Regione autonoma in Irak,  Peshmerga indica l’esercito del Governo kurdo, mentre in Iran continua la resistenza.

Le unità Yja-Star sono inquadrate tra i combattenti del Pkk (Partito dei Lavoratori) fondato in  Turchia contro l’annientamento del popolo kurdo da Abdullah Ocalan con alcuni  compagni,  che nel  1984 ha iniziato la lotta armata di resistenza con la formazione allora  chiamata Argk (Esercito rivoluzionario del popolo), in cui dall’inizio sono inquadrate in gran numero le donne.

Le Ypj (Unità di difesa delle donne) sono state create nel corso della attuale guerra civile in Siria. Il Rojava è riuscito a darsi un’organizzazione autonoma – il confederalismo democratico –  fondata sulla valorizzazione della donna, sul rispetto di ogni etnia e religione, sui principi dell’ecologia. Le Ypj hanno combattuto e combattono con grande valore contro l’Isis e contro la Turchia. Nella decisiva offensiva per la liberazione di Raqqa, fortezza e “capitale” dell’Isis le Forze Democratiche Siriane erano guidate dalla comandante kurda Rojda Felat.

Laura Schrader: profondo conoscitrice della questione Curda.