PARLI IN CURDO? ALLORA SEI UN “TERRORISTA”

Aggiornato il 20/07/21 at 06:46 pm

di Gianni Sartori —- Parlare curdo può costare anche la vita, almeno in Turchia e nei territori del Kurdistan del Nord (il Bakur, sottoposto all’amministrazione-occupazione turca). Non solo le sedi di HDP vengono periodicamente attaccate dai fascisti turchi, ma lo stesso accade sovente a lavoratori curdi sorpresi a parlare nella loro lingua nazionale (il curdo naturalmente, lingua di una “nazione senza Stato”).

Un effetto, neanche tanto collaterale, della campagna di odio razzista alimentata dall’attuale governo e dai suoi alleati politici (“Lupi grigi” in primis).

L’ultimo episodio di cui si è venuti a conoscenza risale al 19 luglio quando alcuni operai agricoli sono stati aggrediti a Sultandagj (provincia di Afyonkarahisar). Nel settembre dell’anno scorso, in circostanze analoghe, un operaio curdo era rimasto ucciso e altri due feriti in una fabbrica a Dinar (sempre provincia di Afyonkarahisar).

I lavoratori curdi, provenienti da Diyarbakir(Amed) e da Mardin (ossia dal Kurdistan del Nord), sono stati aggrediti davanti a un negozio di barbiere. Il proprietario, avendo sentito che parlavano in curdo, li aveva accusati di essere “terroristi” e si era rifiutato, in pratica, di farli entrare.

Un cugino degli aggrediti – stando a quanto riportava Gazete Fersude – ha spiegato che Ismail Tan e Ali Tan si erano messi in coda. Accorgendosi però che tutti, man mano che arrivavano, passavano davanti a loro. Così per almeno due ore. Alle loro rimostranze, il barbiere rispondeva appunto che “erano terroristi, in quanto parlavano in curdo”. Ismail Tan veniva quindi prelevato, caricato a forza su un’auto e portato in una zona disabilitata dove veniva duramente picchiato rompendogli le braccia (e la scena veniva anche filmata).

Informati i familiari da Ali Tan, quando questi si presentavano davanti al negozio per avere spiegazioni, venivano aggrediti, picchiati e bastonati. Sette uomini e due donne – tutti curdi – sono rimasti feriti.

Peggio ancora. Nella provincia curda di Mus si torna a parlare di casi pedofilia in relazione con i corsi di Corano dopo la morte, alquanto sospetta, di un ragazzino di 12 anni, ritrovato impiccato nei bagni di un istituto per l’insegnamento del Corano il 3 luglio. Per i familiari non si tratterebbe di suicidio, ma di un “omicidio pianificato” in quanto il ragazzino difficilmente avrebbe potuto “strangolarsi con una cintura appesa alla maniglia della porta”. Come del resto ritengono anche i medici che invano avevano tentato di salvarlo. Nonostante le rassicurazioni delle autorità – che nel frattempo hanno segretato l’inchiesta – cresce la preoccupazione tra i familiari dei bambini e ragazzi che frequentano i corsi in quanto non vi sarebbero controlli. Questo non sarebbe nemmeno il primo caso di violenza sessuale su minori verificatosi in ambienti di insegnamento religioso. L’anno scorso, sempre nella provincia di Mus, tre ragazzi avevano subito violenza in una scuola coranica nel villaggio di Kod. Nonostante, almeno in questo caso, l’aggressore venisse identificato e arrestato, molti genitori avevano poi ritirato i figli dalla scuola coranica, un’istituzione religiosa controllata dallo Stato.

Come in altre occasioni, da parte delle autorità si era cercato di non far trapelare la cosa e soltanto l’insistenza di alcune madri – sconcertate dal fatto che i bambini si rifiutavano di frequentare i corsi e piangevano in continuazione – aveva consentito che si rompesse il silenzio e la notizia diventasse di pubblico dominio. Ma si si trattava di un’eccezione dato che in genere sia le vittime che i parenti non denunciano per un malinteso senso di rispetto verso i religiosi o di vergogna.

D’altra parte sulla questione esiste – da tempo e di fatto – una sorta di tacita complicità fra autorità pubbliche e religiose per cui si tende a legittimare, giustificare tali eventi. Per dirne una, in luglio il governo turco ha reintrodotto una legge per cui i responsabili non vengono perseguiti se sposano le minorenni vittime di stupro. Una legge che il governo aveva già in precedenza cercato di ripristinare, sia nel 2016 che nel 2020.