La mezzaluna fertile e la corsa all’oro blu

Aggiornato il 23/03/21 at 09:14 pm

di Alice Ajmar —- La Mesopotamia è un territorio che gioca un ruolo geopolitico decisivo da millenni: culla della civiltà agricola, oggi è protagonista contesa dai paesi che hanno tracciato i confini su di essa.

Tigri ed Eufrate rappresentano sempre più una risorsa indispensabile per l’approvvigionamento idrico ed energetico, ma non sono solo questi i motivi di tanta attenzione da parte dei governanti: la retorica del progresso sociale nasconde interessi economici e politici enormi aventi l’obiettivo di logorare o consolidare (a seconda delle circostanze) i rapporti con le minoranze e con le nazioni limitrofe.

Un esempio fra tutti è il turco GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi), un ambizioso progetto che consiste nella creazione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche lungo il bacino dei due grandi fiumi. Il GAP vanta la vocazione di agevolare la crescita industriale per porre fine allo squilibrio economico tra la popolazione dell’est e il resto del paese, grazie alla creazione di nuove opportunità di lavoro e il potenziamento dell’agricoltura locale.

Tra gli effetti collaterali, però, si può menzionare la distruzione lo scorso anno dell’antica Hasankeyf, straordinaria città del sud-est del paese ricca di reperti archeologici ormai sommersi dalla diga di Ilısu, tanto bramata dal governo di Ankara. Nonostante l’uscita di scena di molti finanziatori internazionali, il presidente Erdogan è riuscito a inaugurare l’opera. Il KHRP (Kurdish Human Rights Project) conta ad oggi 85.000 sfollati, a maggioranza curda, che sono stati costretti ad abbandonare non solo la dimora, ma anche la testimonianza di un passato prospero e indipendente. La scelta governativa è un tassello che si somma al grande programma secolare di eliminazione del nazionalismo curdo. Recep Tayyip Erdoğan ha etichettato come “terrorista” chiunque protestasse contro la sua opera idraulica, accusando i manifestanti di avere legami con il PKK, Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione che combatte per l’autonomia curda.

 

Ma il presidente turco è riuscito a raggiungere un altro traguardo: far tremare l’Iraq. Il GAP e la riduzione strategica dei flussi d’acqua di grandi affluenti del Tigri da parte dell’amministrazione iraniana tengono sotto scacco i vicini iracheni, già in ginocchio a causa dei conflitti continui. Nonostante la diga di Mosul, la crisi di approvvigionamento idrico è alle porte.

Anche in Siria la siccità è diventata un’emergenza: l’impianto di Alouk viene spesso chiuso dalle milizie turche occupanti, lasciando l’intera regione di Tel Tamer e Heseke in condizioni igienico-sanitarie rovinose. In quella zona l’estate del 2020 si è conclusa con la carenza di elettricità, gas, acqua e con il costante pericolo della diffusione incontrollata del Covid-19. Decine di migliaia di rifugiati ospitati nel campo Al-Hawl sono ancora costretti a bere acqua non potabile, i medici presenti possono fornire esclusivamente visite di base e le milizie curde sono obbligate a compiere lunghi viaggi con le autocisterne per rifornire i profughi. L’obiettivo strategico del governo di Ankara è naturalmente quello di usare l’acqua come arma di minaccia per piegare l’autonomia del Rojava.

Nonostante l’appello dell’ONU alla cooperazione, gli accordi per una risoluzione all’emergenza sembrano ancora molto lontani. Come spesso accade il barlume della speranza viene alimentato dal “basso”, attraverso iniziative e organizzazioni civili. Il libro Make Rojava green again pubblicato dalla casa editrice Mezopotamya, l’associazione curda Mezopotamya Ekoloji Hareketi e il documentario italiano Hasankeyf waiting life sono solo tre fra gli esempi di voci ribelli al giogo ostile del demagogismo.