ROJAVA, BAKUR, ROJHILAT…CURDI SEMPRE SOTTO TIRO

Aggiornato il 17/01/19 at 09:52 pm

di Gianni Sartori — Cantone di Afrin. Chi lo ha visitato ne parlava con entusiasmo.Una natura magnifica – tra montagne e pianura – varia e suggestiva. Ricchezze inestimabili, sia in superficie che nel sottosuolo. Storicamente agricola, questa regione nel nord della Siria è da sempre anche vivaio di convivenza tra diverse etnie, fedi religiose, culture (Arabi, Curdi, Ezidi, Zoroastriani, Aleviti, Sunniti…). Un esempio di possibile e proficua convivenza tra popoli, se pur in miniatura, .

Quella di Afrin è una delle aree liberate in cui maggiormente si era consolidata l’esperienza del Confederalismo democratico, frutto della rivoluzione – sociale e culturale – del Rojava.

Negli ultimi anni era divenuta anche un rifugio per quanti fuggivano dalle devastazioni operate dagli Stati (in particolare di quello soidisant “islamico”).

Anche sotto assedio, l’amministrazione autonoma ha offerto protezione  e assistenza agli sfollati provenienti da ogni angolo della Siria. E soprattutto, diversamente da come la Turchia agisce con i rifugiati (usati come ricatto e moneta di scambio nei confronti dell’Europa) senza contropartite.

L’acuirsi del conflitto aveva alimentato ulteriormente le ondate di fuggitivi, provenienti da Aleppo, Kafrnaha, al-Tabqa, al-Raqqa, Hama…e anche di profughi palestinesi, in parte scappati dall’Iraq.

Aperto nel 2014, il campo profughi di Robar a Basla (distretto di Sherawa) aveva accolto oltre tremila profughi. Un altro centinaio di famiglie venivano ospitate direttamente nella città di Afrin, 25mila persone nel distretto di Rajo, 50mila nella regione di Janders, 10mila a Bulbul e 15mila nel distretto di Shara.

La collaborazione tra il Comitato di gestione delle persone sfollate e l’Autorità per gli affari sociali e del lavoro, ha consentito – nell’ambito dell’Amministrazione democratica autonoma – di affrontare positivamente le questioni vitali (tende, elettricità, acqua, assistenza medica,  istruzione…) per gli ospiti dei campi di Shehba e Robar. Garantendo, nei limiti del possibile, anche opportunità lavorative per i rifugiati.

Va comunque stigmatizzato che gli appelli rivolti alle organizzazioni umanitarie, sono stati disattesi.

La situazione era precipitata il 20 gennaio 2017, data dell’attacco turco eufemisticamente denominato “Ramoscello d’olivo” (ma forse “Randello” era più appropriato). Mentre esercito e aviazione di Ankara (con l’accompagnamento dei soliti mercenari) si scatenavano su Afrin e dintorni,

alla furia devastatrice non sfuggivano nemmeno i campi profughi. E non certo come “effetto collaterale”, ma in quanto obiettivi precisi e prestabiliti.

Un gran numero di profughi (in gran parte arabi), tra cui decine di bambini rimasti feriti nei bombardamenti dei primi giorni,  hanno dovuto fuggirsene via – terrorizzati –da Robar, rifugiandosi nei villaggi circostanti.

REPRESSIONE NEL ROJHILAT

Se la Turchia opera contro i curdi su scala industriale, non va sottovalutata la gravità della repressione iraniana (su scala artigianale, per ora) nel Rojhilat (Kurdistan orientale, sotto l’amministrazione di Teheran). Dopo la recente ondata di arresti operata da polizia e servizi nelle città di Kamyaran e Sine (Sanandaj), la Piattaforma democratica dei movimenti e dei popoli d’Iran ha diffuso una dichiarazione in cui si rivolge a tutti i movimenti politici chiedendo loro di solidarizzare con gli arrestati.

Nel testo di mette in guardia contro il rischio rappresentato dalle attuali misure di sicurezza adottate dalla Repubblica islamica  per la vita stessa (oltre che per la libertà) dei dieci militanti ecologisti curdi. Accusati di “spionaggio e corruzione sulla terra”, potrebbero venir sottoposti a torture per estorcere improbabili “confessioni”.

L’azione repressiva, opera dei servizi del regime, viene definita un “complotto”, deciso e avviato a Teheran per approdare in Rojhilat. Oltre all’arresto dei dieci militanti, vi rientrerebbe a pieno titolo l’uccisione di Kavous Seyed Emami – sociologo ed ecologista – morto in circostanze poco chiare nella prigione di Evin.

Nella dichiarazione si ricorda che il responsabile governativo della sicurezza – in un’intervista concessa all’agenzia Mehr – ha affermato che gli arrestati erano membri del Partito della vita libera del Kurdistan (PJAK) e che agivano sotto la copertura di associazioni ambientaliste. Accusandoli anche della morte del conducente di un’ambulanza dell’organizzazione Kamyaran,

ma senza fornire alcuna prova. Va ricordato che il PJAK, oltre a non rivendicare come propri membri gli arrestati, aveva fornito un’altra versione sulla morte dell’autista che in realtà sarebbe stato ucciso da agenti dei servizi iraniani.

Scrive la Piattaforma democratica dei movimenti e dei popoli d’Iran: “Senza alcun dubbio, l’obiettivo strategico del regime islamico dell’Iran, di complottare contro i militanti dei movimenti sociali e civili così come contro i militanti ambientalisti, i lavoratori, gli insegnanti, gli studenti, le donne etc. – che continua da quattro decenni di potere reazionario e repressivo – non è altro che un capovolgimento del movimento sociale di massa condotto dagli oppressi, dopo la creazione della Repubblica islamica”.

E quindi invita “tutte le organizzazioni socialiste e di sinistra, i partiti e i movimenti politici, i militanti libertari ed ecologisti, i difensori dei dei diritti umani e le comunità oppresse in Iran a sostenere i militanti arrestati in Kurdistan  per sconfiggere le denunce e i mandati di arresto del regime”.

 

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