Punti di forza e di debolezza dell’Isis

Aggiornato il 03/05/18 at 04:40 pm


di Luciano Tirinnanzi

Le controffensive di agosto in Iraq e Siria e il coinvolgimento degli americani nel conflitto potrebbero segnare un punto di svolta nel conflitto siro-iracheno. Ecco come e perché…… Lo Stato Islamico continua a terrorizzare larga parte della popolazione civile e militare in Iraq, Siria e Kurdistan, mentre il suo imprevisto successo costringe oggi l’Occidente e gli alleati in Medio Oriente a ripensare le operazioni belliche per respingere la minaccia islamica sunnita.
Se il progetto iniziale dello Stato Islamico in Iraq e Levante di abbattere gli Stati nazione in Iraq e Siria ha funzionato – grazie anche a una concomitanza d’insurrezioni civili e militari in quei luoghi – oggi la sua affermazione territoriale impone una modifica sostanziale della strategia.
Per quanto precario, lo Stato Islamico (d’ora in avanti “IS” per semplicità) è ormai vicino a potersi considerare un’entità statuale, nota come Califfato. Sotto il suo vessillo nero, mutuato dalla tradizione islamica, in questo momento operano almeno 15mila guerriglieri e numerosi altri affiliati, avvicinatisi per condivisione d’ideali o per mera convenienza politica.
I soldi per finanziare la loro guerra non mancano: oltre a finanziamenti occulti (di cui non ci occuperemo in assenza di prove), da quando le milizie dello Stato Islamico hanno trovato un vero e proprio tesoro di guerra nella banca centrale di Mosul, la strada per finanziare la jihad e far breccia nei cuori della popolazione sunnita, è stata più o meno in discesa.
I miliziani ricevono regolarmente uno stipendio mensile e cibo sufficiente a essere distribuito anche alle popolazioni locali, che patiscono il declino dell’Iraq da oltre dieci anni e che in Siria sono allo stremo delle forze per fame.
Oltre a ciò, IS è avvantaggiato della liquefazione dell’esercito iracheno, che ha conosciuto diserzioni, fughe di massa e che ha incomprensibilmente e incautamente abbandonato in mano nemica armi e mezzi, compresa parte dell’eredità del post-conflitto che oppose Saddam Hussein agli Stati Uniti nel 2003. Un arsenale vecchio ma sufficiente a portare avanti la guerra.
L’intervento USA
Il nuovo e parziale intervento agostano degli Stati Uniti, che hanno infine deciso di “aiutare” il governo iracheno a fronteggiare IS con bombardamenti mirati e il coordinamento dell’intelligence, potrebbe cambiare le sorti del conflitto.
Gli Stati Uniti non sono proprio gli ultimi arrivati in Iraq e non a caso da qui, o meglio dal Kurdistan, hanno iniziato le operazioni per contenere l’avanzata dell’IS. Ciò significa che d’ora in avanti la strategia dello Stato Islamico non può essere più solo di attacco, ma deve pensare anche alla propria difesa.
Un particolare non risibile, se si considera che sinora i miliziani di Abu Bakr Al Baghdadi – il Califfo al vertice dello Stato – hanno puntato tutto sull’offensiva e l’effetto sorpresa. Ma una volta conquistate, le città e i territori vanno mantenuti. Ed è questa la parte più difficile.
Per prendere la diga di Mosul possono bastare anche mille uomini armati fino ai denti, ma per mantenere la posizione e schivare i bombardamenti occorrono una più alta preparazione e contraeree efficaci, capaci di resistere per mesi agli assalti del nemico.
La strategia militare di ISIS
Nel 2013, quando il progetto del Califfato era ancora in nuce, ondate di attentati e autobombe hanno decapitato i vertici dell’intelligence e i caporioni delle comunità e dei villaggi iracheni. Eliminati i vertici e i più minacciosi avversari dei radicali sunniti, si è passati all’azione militare vera e propria, alle rappresaglie una volta entrati nelle città, alla requisizione di cibo, armi e mezzi, alla propaganda nelle moschee e via internet per il reclutamento di forze fresche, agli accordi con la popolazione locale per continuare la gestione del quotidiano sotto il nuovo vessillo.
Infine, sono state siglate intese militari con le milizie jihadiste operative in Siria: su tutte, Jabhat Al Nusra, feroce oppositore del regime di Bashar Al Assad. Così, l’esercito dello Stato Islamico è cresciuto in numero e potenza e ha potuto muovere guerra ai governi sciiti di Damasco e Baghdad.
In Iraq, la tattica sul campo dei miliziani dello Stato Islamico si è dimostrata semplice ed efficace ed è consistita nel far convergere numerose milizie in uno stesso punto, grazie a mezzi leggeri e veloci e alle buone condizioni delle strade, frutto della ricostruzione post-bellica.
Concentrando le forze e la potenza di fuoco su obiettivi limitati, infatti, si può scoraggiare a sufficienza tanto la popolazione quanto, soprattutto, le forze di difesa avversarie. Inoltre, infierire sull’avversario, decapitando a mano nuda chi non intende piegarsi o accettare il nuovo corso, fa il suo effetto (soprattutto in Occidente). In questo, lo Stato Islamico non ha pari e proprio così ha guadagnato terreno sia in Iraq che in Siria. Altra cosa è, però, saper difendere una città o un intero Stato.
La difesa dello Stato Islamico
L’IS ha una capitale in Iraq, Mosul, e un capoluogo in Siria, Raqqa. Il collegamento tra le due città è una priorità per il buon esito della loro grande campagna militare. Se venisse interrotta la comunicazione tra questi due centri nevralgici del potere, per il Califfato sarebbe un duro colpo.
Le postazioni difensive improvvisate o non dotate di una contraerea efficace rappresentano per l’IS un obiettivo estremamente vulnerabile, facile da intercettare per i satelliti americani e piuttosto semplice da distruggere.
Ecco perché le milizie sunnite si spostano velocemente e di continuo ed ecco perché la presa della diga di Mosul non ha tenuto: conquistata da IS, è stata ripresa dall’esercito iracheno, nuovamente riguadagnata da IS e in queste ore è oggetto di violenti bombardamenti americani.
Così come Amerli, dove gli eserciti curdo e iracheno hanno aperto una breccia e oggi esultano per la prima vittoria sul campo contro lo Stato Islamico (ben poca cosa in realtà, visto che una cittadina di meno di 20mila abitanti non può considerarsi un successo).
Dunque, il punto forte dello Stato Islamico sta nella sua capacità di aggressione del nemico, mentre ciò che deve temere più d’ogni altra cosa sono le controffensive via terra e via aria. Almeno questo, gli uomini del Pentagono lo hanno capito. E, se volessero davvero eradicare il pericolo jihadista, dovrebbero perseverare in quest’opera e preparare assalti terrestri in grande stile.
In attesa di ciò, resta da vedere se lo Stato Islamico avrà forze sufficienti per una difesa permanente, se invece aprirà nuovi fronti di guerra (conviene?) per diversificare e quanto sarà capace di tenere in piedi il Califfato, visto che condizione imprescindibile per l’esistenza di un qualsiasi Stato è il mantenimento dei confini statuali.
La differenza tra Iraq e Siria
L’intelligence americana ritiene che IS sia capace di resistere per molti mesi in Iraq mentre non si pronuncia sulla Siria. Se questo lasso di tempo sarà sufficiente all’IS per disegnare un nuovo Paese nel cuore del Medio Oriente, non è oggi possibile affermarlo.
Ad ogni buon conto, la realtà per il governo di Washington è che, volente o nolente, deve coordinare i propri sforzi bellici e diplomatici con le forze regolari locali per combattere l’IS. Questo sta già avvenendo in Iraq, dove il governo sciita è riconosciuto dagli USA, che ne hanno accettato la richiesta di aiuto.
Il problema vero è invece la Siria: per recidere la testa dell’Idra, Barack Obama dovrà trovare assolutamente il modo di “dialogare” con il presidente Assad. Un boccone amarissimo da inghiottire dopo tanti anni di minacce verbali, ma che potrebbe essere essenziale per eliminare la minaccia del Califfo Al Baghdadi.
Un’ultima considerazione: Barack Obama deve concludere la guerra siro-irachena entro l’estate del 2016, alla scadenza del suo mandato, se non vuole passare alla storia come il primo presidente degli Stati Uniti che ha visto trionfare il Califfato Islamico per insipienza della politica estera americana
Fonte:Panorama.it

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