L’Iraq si spacca: uno stato per i curdi? Israele dice sì, e la Turchia

Aggiornato il 03/05/18 at 04:40 pm


di Vannucci Davide

Dieci giorni fa la petroliera SCF Altai è sbarcata nel porto israeliano di Ashkelon. Un viaggio come altri, in apparenza. Ma questa volta il carico, un milione di barili, non era neutro, politicamente parlando……. Veniva direttamente dalla regione semi-autonoma del Kurdistan iracheno. E in Iraq, come in Libia, gestire la vendita della principale risorsa nazionale significa compiere un passo forte verso l’indipendenza.
Da mesi i curdi sono impegnati in una disputa con Bagdad sui proventi del petrolio. Vogliono occuparsi senza filtri delle proprie risorse, bypassando il governo centrale, che oggi trattiene buona parte degli introiti. Hanno creato un nuovo oleodotto, verso il porto turco di Ceyhan, in modo da vendere direttamente ad Ankara e, adesso, a Israele.
L’obiettivo storico è quello di riunire in un unico stato tutte le popolazioni di etnia curda, adesso divise in quattro paesi, Iran, Iraq, Turchia e Siria. Ci riusciranno? Questa volta la prospettiva di un’indipendenza, quantomeno dall’Iraq, sembra più vicina. L’accordo Sykes-Picot, anno 1916, è ormai carta straccia: i vecchi confini statali del Medio Oriente, tracciati da Francia e Regno Unito, di fatto non esistono più, dopo che i fondamentalisti sunniti dell’Isis hanno conquistato vaste porzioni, territorialmente contigue, dell’Iraq e della Siria. Anzi, l’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del levante) è diventato semplicemente Stato islamico, proclamando la nascita di un vero e proprio califfato, guidato da Abu Bakr al Baghdadi. Una sfida ai paesi del Golfo, nonché a tutta la struttura disegnata da Mark Sykes e Georges Picot.
In questa ridefinizione degli assetti mediorientali, i curdi possono giocare le loro carte. Anche perché in questo momento in Iraq c’è grande bisogno di loro. Il fittizio esercito nazionale, pur essendo numericamente superiore, si è sciolto davanti all’avanzata dell’Isis. Il premier Nouri al Maliki, sciita, ha governato in materia settaria, escludendo i sunniti, che non intendono combattere per lui.

Gli unici che oppongono resistenza ai fondamentalisti sono i guerriglieri curdi, i peshmerga, che già aiutarono gli Stati Uniti nella guerra a Saddam. Lo fanno non certo per fedeltà a Maliki – anche per loro il premier iracheno ha fatto il suo tempo – ma perché l’imposizione di un califfato islamico potrebbe rappresentare la fine delle loro aspirazioni e dei loro diritti.

Che l’atteggiamento nei confronti della causa curda sia cambiato lo si deduce da alcuni particolari. Durante un incontro all’Università di Tel Aviv il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che il popolo del Kurdistan, affidabile e moderato, merita l’indipendenza politica. Il suo ministro degli esteri, Avigdor Lieberman, l’ha messa su un altro piano: «L’indipendenza curda è il risultato inevitabile dell’implosione dell’Iraq».
Ma a colpire è stato soprattutto lo spostamento della posizione turca. Basta leggere le dichiarazioni rilasciate al Financial Times da Huseyin Celik, portavoce dell’Akp di Erdogan: «In passato un Kurdistan indipendente era una ragione di guerra per la Turchia, adesso nessuno può più sostenerlo. Noi non incoraggiamo l’indipendenza, ma, se dovesse accadere, ci convivremo».
Parole importanti, perché il mantenimento dell’integrità territoriale irachena è sempre stata una delle direttrici della politica estera di Ankara. Negare diritti ai curdi d’Iraq serviva a stroncare la battaglia dei curdi di Turchia, con i quali il governo centrale è in conflitto da decenni. Negli ultimi anni, però, c’è stata un’evoluzione e l’esecutivo ha iniziato a dialogare con il Pkk, il maggiore partito indipendentista, che a sua volta ha limitato i propri orizzonti.
Ora l’Iraq sta implodendo ed Erdogan ne prende atto. L’Isis, che, dopo avere preso la seconda città irachena, Mosul, vi tiene in ostaggio ottanta turchi, fa paura e le risorse energetiche del Kurdistan sono decisamente appetibili. In altri tempi la presa di Kirkuk, città petrolifera, contesa dalle varie comunità, caduta nelle mani dei peshmerga l’11 giugno, sarebbe stata considerata una red line da non oltrepassare. Invece il presidente della regione semi-autonoma, Massoud Barzani, ha fatto sapere che Kirkuk rimarrà curda e che un referendum per l’indipendenza potrebbe essere vicino. Il suo vice, Qubad Talabani, è stato più prudente e ha parlato di un sistema politico decentralizzato. Un’idea che piace agli americani e che è stata discussa una settimana fa da John Kerry, durante la sua visita nella capitale della regione semi-autonoma, Erbil.
Fonte: Europa

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