I nuovi tiranni di Bagdad

Aggiornato il 03/05/18 at 04:34 pm


di Andrea Glioti

A Bagdad si continua a morire. Il risultato della “democratizzazione” irachena, dopo quasi nove anni di presenza statunitense, è una sfera politica polarizzata lungo meridiani confessionali ed etnici……… con poche speranze di consolidare l’attuale coalizione tripartita (curda, araba sciita e araba sunnita) al governo.
Riemergono tendenze autoritarie molto simili ai tempi di Saddam. La frammentazione politica destabilizza la sicurezza: ieri una serie di attentati ha fatto circa settanta vittime e più di quattrocento feriti, in sette diverse province del paese. Ma la frammentazione rende anche l’Iraq un terreno sempre fertile per le interferenze estere.

La paralisi
Come previsto, il ritiro americano completato al termine dell’anno scorso ha coinciso con una nuova crisi politica, esplosa con violenza il 19 dicembre, quando il ministero dell’interno, controllato de facto dalla coalizione del premier sciita Nouri al Maliki, ha reso pubbliche le confessioni di alcuni membri della scorta del vice presidente sunnita, Tariq al Hashimi (della lista al Iraqiya), coinvolti in operazioni terroristiche. I capi d’imputazione di cui dovrà rispondere Hashimi sono tutti punibili con la sentenza capitale. Hashimi si è dato subito alla fuga, rifugiandosi nella regione autonoma del Kurdistan, dove può contare sull’appoggio del presidente curdo-iracheno Jalal Talabani.
Non si tratta di un caso isolato: l’evento è stato infatti accompagnato da un attacco contro un’altra personalità sunnita di spicco di al Iraqiya, il vice primo ministro Saleh al Mutlak, destituito da Maliki per averlo definito un dittatore. A livello locale, l’offensiva lanciata dal partito del premier si è espletata in una campagna di arresti, che ha colpito i membri del consiglio della provincia a maggioranza sunnita di Diyala.
È così cominciato l’ennesimo giro di consultazioni per convocare una conferenza nazionale e riconciliare le parti. Ognuna delle quali ha posto le sue condizioni: il presidente del Kurdistan Mas’ud Barzani esige che l’incontro venga organizzato nella regione autonoma; la coalizione di Maliki pretende che non vi venga discusso il caso Hashimi; al Iraqiya chiede le dimissioni del primo ministro. Le ultime indiscrezioni non escludono un rinvio della conferenza a una data da definirsi – ma successiva al 29 marzo, quando Bagdad ospiterà il prossimo summit della Lega araba.
Dopo due mesi di incontri, non sono stati ancora definiti luogo e data di una tavola rotonda già destinata al fallimento. Al Iraqiya, che fino al 6 febbraio ha disertato le riunione del consiglio dei ministri, minaccia di tornare a boicottare il governo e la riconciliazione rimane un’ipotesi remota.

L’ago della bilancia
Il fatto che Talabani abbia offerto protezione ad Hashimi ha poi creato animosità tra la coalizione dello stato di diritto di Maliki e i partner di governo curdi. L’Alleanza del Kurdistan ormai accusa esplicitamente Maliki di despotismo e inaffidabilità (per non aver ancora convocato il referendum sulle sorti dei territori intorno a Kirkuk, contesi tra arabi, turcomanni e curdi). La stampa irachena ha parlato di invettive «senza precedenti», alludendo alla possibilità di una rottura del patto tra Maliki e i curdi. Come previsto, i sunniti di al Iraqiya e l’Alleanza del Kurdistan non escludono ora la formazione di nuove alleanze, in caso di fallimento della conferenza nazionale.
L’avvicinamento di al Iraqiya ai curdi è stato però percepito con preoccupazione dagli arabi sunniti di Kirkuk, parte dell’elettorato di al Iraqiya, i quali non hanno tardato a ricordare alla lista di averla votata perché tutelasse i diritti degli arabi nella provincia.
Dal canto loro i partiti sciiti, pur rappresentando la maggioranza in parlamento, sono consapevoli di non poter perdere un alleato prezioso come i curdi: si spiega così la recente abrogazione delle leggi emanate da Saddam alla radice dell’espropriazione delle terre di proprietà curda e turcomanna. I partiti curdi hanno reagito positivamente, ma il Fronte turcomanno ha criticato un simile provvedimento, che riguarderebbe una minima porzione dei territori turcomanni.

Sciiti contro sciiti
L’alternativa alla riconciliazione, caldeggiata da numerosi partiti sciiti, sarebbe un governo di maggioranza sciita, evitando di dipendere dalle diatribe con al Iraqiya. In questa direzione, secondo Khalid Walid di niqash.org, sembra collocarsi l’assimilazione politica dell’ex gruppo di insorti sciiti della Lega dei virtuosi (’Asa’ib Ahl al Haqq), guidato da Qays al Khaza’ali: Maliki starebbe cercando di bilanciare il peso politico di Moqtada al Sadr tra gli elettori sciiti, assicurandosi il supporto di uno dei suoi principali rivali. I sadristi rimangono infatti un alleato scomodo, memori di come Maliki e gli Usa li abbiano assediati a Bassora nel 2008 e tuttora propensi a negoziare una riconciliazione con al Iraqiya. L’entrata in politica della Lega dei virtuosi potrebbe avere però effetti indesiderati, considerando la rigida opposizione dei sadristi e la spaccatura che potrebbe aprirsi tra i seguaci di al Sadr e Maliki. Ultimamente, il leader sadrista ha moderato i toni contro i seguaci di Khaza’ali, ma non vi sono sufficienti garanzie che la tregua resista a lungo.
Maliki rischia un isolamento progressivo, mentre si moltiplicano le critiche alle sue tendenze autoritarie: Human Rights Watch ha definito l’Iraq un paese «in discesa verso il despotismo», la commissione parlamentare per i diritti umani ha denunciato la presenza di prigioni segrete sotto il controllo della 56ma brigata di Bagdad, un reparto militare incaricato della protezione del primo ministro.

Kurdistan, la repubblica dei partiti
Ma le derive autoritarie non sono una prerogativa del premier: basta osservare gli sviluppi politici interni al Kurdistan. Nijirvan Barzani, nipote del presidente della regione autonoma e membro del Partito democratico del Kurdistan (Pdk), è succeduto al primo ministro Barham Salih dell’Unione patriottica del Kurdistan (Upk) di Jalal Talabani, secondo un accordo informale tra i due partiti, che prevede un avvicendamento del premier ogni due anni; Barham Salih sarebbe invece l’erede destinato a sostituire Talabani. In un simile contesto intriso di nepotismo, l’opposizione curda, rappresentata dal Movimento del cambiamento (Gorran) e dall’Unione islamica del Kurdistan, fatica a trovare spazio. Anche in Kurdistan la stampa locale è oggetto di attacchi quotidiani, soprattutto quando racconta i movimenti di protesta. In occasione dell’anniversario delle rivolte contro la partitocrazia curda (15 febbraio 2011), che causarono la morte di numerosi manifestanti, la giornalista indipendente olandese Judit Neurink ha lanciato un appello al premier Barzani perché i giornalisti smettano di essere percepiti ostilmente dalle autorità. Pochi giorni fa, ho avuto l’occasione di incontrare alcuni attivisti curdi a Beirut: si lamentavano di essere passati dalla tirannia del regime (istibdad al-nizam) di Saddam alla tirannia dei partiti (istibdad al-ihzab).

Il solito Risiko
Una simile frammentazione interna facilita l’interferenza delle potenze straniere. Iran e Usa sono stati in prima fila nella crisi tra al Iraqiya e Stato di diritto. La Turchia ha insistito sull’innocenza del sunnita Hashimi, in funzione di contenimento dell’influenza iraniana. Come ha fatto notare il deputato della coalizione di Maliki, Izzat Shabandar, l’Iraq si trova schiacciato tra la dottrina politica di Khomeini e l’ottomanesimo turco.
Il risultato sono stati alcuni razzi caduti a gennaio sull’ambasciata turca e un appello lanciato da un nuovo collettivo (Badr9) affinché le varie fazioni confessionali non abbandonino la lotta armata per difendersi dalle intromissioni delle potenze regionali. Segnali non certo incoraggianti. Oltretutto la strategia adottata dal governo per migliorare la sicurezza interna – con l’assimilazione delle milizie nella vita politica del paese – suscita parecchi dubbi: gruppi come la Lega dei virtuosi vengono infatti accusati di essere supportati dall’Iran e di essere stati tra i protagonisti dei massacri tra sunniti e sciiti del 2006-’07. I leader di un altro gruppo radicale sunnita, l’Esercito islamico iracheno (al Jaysh al Islamiyy al Iraqiyy), accusato di essere stato tra i protagonisti delle violenze a sfondo confessionale, sono in procinto di entrare in politica.
Vi sono pertanto dei dubbi legittimi sulla compatibilità di queste bande con il principio adottato nel concedere l’amnistia: quello di non aver sparso del sangue iracheno.

Agli iracheni chi ci pensa?
Sullo sfondo dimenticato dei giochi di potere regionali e delle diatribe tra i partiti iracheni, la popolazione continua a tollerare condizioni di vita miserabili. In un paese che fattura miliardi solo grazie alle entrate petrolifere, il governo non è in grado di calmierare i prezzi del petrolio bianco, fondamentale per il riscaldamento delle abitazioni nella stagione invernale.
L’eccessiva dipendenza dalle rendite petrolifere rischia inoltre di penalizzare fortemente l’economia nazionale, in caso l’Iran decidesse di bloccare lo Stretto di Hormuz in reazione alle sanzioni europee e americane sulle esportazioni petrolifere. Il bilancio pubblico del 2012 dovrebbe essere approvato in questi giorni, dopo mesi di scontri, che hanno ritardato lo stanziamento dei fondi necessari alla realizzazione di numerosi progetti. Una notizia positiva proviene quantomeno dalla possibile distribuzione del 20 per cento degli introiti petroliferi tra la popolazione, grazie all’insistenza dei sadristi. Mentre gli attentati continuano a mietere vittime quotidianamente, la fine dell’occupazione americana non ha comportato nessun genere di risarcimento, né dal punto di vista economico né da quello giudiziario: basti ricordare l’assoluzione nel mese scorso del sergente statunitense Frank Wuterich. Il militare ha ammesso di aver ordinato di sparare in occasione del massacro di Haditha (uccisione di venti civili iracheni), ma non sconterà nemmeno la pena minima di tre mesi di detenzione, grazie a un patteggiamento con l’accusa.
Fonte:europaquotidiano
 

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