Tra sciiti e sunniti l’Iraq resta sull’orlo dell’abisso

Aggiornato il 03/05/18 at 04:34 pm


di Carlo Jean

L’unica certezza esistente sul futuro dell’Iraq è l’incertezza delle conseguenze dello scontro in atto fra sciiti e sunniti. Le ottimistiche dichiarazioni del presidente Barack Obama – “gli USA lasciano un Iraq stabile e democratico”,……… fatte a metà dicembre a Washington alla fine della visita del primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki – sono oggetto di derisione in tutto il mondo. Altrettanto era stato il “mission accomplished”, solennemente annunciato dal presidente Bush il 1° maggio 2003, dopo l’occupazione di Baghdad. Mentre l’ultima unità Usa lasciava l’Iraq, si sono intensificate le violenze. Inoltre, al-Maliki, a capo di una coalizione sciita composta dal Partito Dawa, dai seguaci di Moqtada al-Sadr e dall’Isci (Islamic Supreme Council of Iraq), ha iniziato un’epurazione su larga scala a danno dei sunniti ed anche dell’Isci, che pur fa parte della coalizione che lo sostiene. Teme certamente un colpo di Stato. E’ preoccupato di essere indebolito da quanto avviene in Siria e in Iran. Vuole obbligare i suoi avversari a sottomettersi, a dimettersi. Ha accusato il vicepresidente sunnita, Tareq al-Hashemi di terrorismo, obbligandolo a rifugiarsi nel Kurdistan iracheno; ha chiesto che il vice-primo ministro Saleh al-Mutlak, anch’esso sunnita, sia sollevato dall’incarico, perché aveva affermato che al-Maliki era un dittatore addirittura peggiore di Saddam Hussein. Sta, inoltre, attaccando un altro rispettato esponente sunnita, il ministro delle finanze, Rafi al-Issawi; ha licenziato poi diverse centinaia di ufficiali e di funzionari, con l’accusa di aver fatto parte del partito Ba’ath; ha accentuato l’orientamento filo-iraniano di Baghdad, condannando le sanzioni occidentale contro l’Iran, accordando prestiti al dittatore siriano Basher al-Assad, per consentirgli di pagare le truppe a lui fedeli Si è infine dissociato dalle decisioni della Lega Araba di imporre sanzioni alla Siria. Insomma, sembra sia stato colpito da una vera e propria paranoia. Vede complotti ovunque.
IL RISCHIO RELIGIOSO Rischia di far scoppiare in Iraq uno scontro religioso. Potrebbe provocare una guerra civile, il risorgere di al-Qaeda, l’aumento dell’influenza di Teheran o, addirittura, la divisione del paese fra sciiti, sunniti e curdi. La rottura dell’unità nazionale non sarebbe indolore. I tre gruppi sono sovrapposti fra loro, oltre che a Baghdad, in varie province. Scoppierebbero violenze e pulizie etniche. Gli Stati confinanti – dall’Arabia Saudita, all’Iran e alla Turchia – interverrebbero. Come la Siria, l’Iraq diverrebbe campo di battaglia fra sciiti e sunniti. I curdi stanno a guardare lo scontro fra gli arabi. Sono preoccupati perché ne temono la vendetta, dopo l’appoggio dato agli Usa per l’occupazione dell’Iraq. Il ritiro americano li mette in difficoltà. Cercano di ottenere il sostegno della Turchia, contraria all’aumento dell’influenza iraniana in Mesopotamia e che ha grossi interessi economici nel Kurdistan iracheno. Che il Governo Regionale Curdo (Krg) voglia ingraziarsi Ankara è evidente. Lo dimostra la sua mancata protesta contro uno dei frequenti raid aerei turchi, che ha ucciso 35 curdi iracheni e ferito un altro centinaio. Ciò è evidente, anche per la crescente collaborazione di Ankara nella lotta contro i terroristi del Pkk, che hanno le loro basi nel Kurdistan settentrionale.
L’«ALLEATO» TURCO Tra turchi ed arabi i curdi preferiscono i primi. Cercano di attenuare le preoccupazioni turche, attenuando le critiche sullo status di cittadini di serie B che i curdi hanno in Turchia. Senza il sostegno turco non potrebbero impossessarsi della provincia di Kirkuk, loro storica capitale, menzionata come tale nella costituzione curda e per di più ricchissima di petrolio e gas. I curdi ricevono il 17% degli introiti del petrolio iracheno. Ne pretendono una percentuale maggiore, ma gli arabi vorrebbero diminuirla al 12%. Il Kurdistan possiede il 20% delle riserve petrolifere irachene, verosimilmente seconde solo rispetto a quelle dell’Arabia Saudita. Senza l’appoggio turco, i curdi non potrebbero mantenere l’autonomia, di cui godono dal 1991 e che è stata riconosciuta dalla costituzione irachena del 2005. Sono disposti a battersi. Dispongono di ottime milizie – i peshmerga – ben addestrate ed armate modernamente dagli Usa. Tutto sommato, conviene loro che continui l’instabilità a Baghdad. Impedisce agli arabi di far massa contro di loro, sfruttando le divisioni dei curdi iracheni fra le due grandi famiglie che li dominano: quella di Talabani, oggi presidente dell’Iraq, e quella di Barzani, capo del Krg. Negli anni Novanta, entrambe non avevano esitato ad allearsi rispettivamente con Saddam Hussein e con l’Iran pur di prevalere l’una sull’altra. Il pericolo dell’egemonia sciita in Iraq dovrebbe compattarle. Ma non si sa mai! Gli odi tribali possono prevalere su ogni calcolo razionale. Le ragioni del contrasto fra sunniti e sciiti non sono né etniche – entrambi sono arabi – e neppure teologiche, ma geopolitiche. Alla volontà di dominio e di vendetta degli sciiti – da secoli oppressi dai sunniti – i contrasti fra i due gruppi possono essere compresi solo considerandoli nel quadro delle crescenti tensioni fra le teocrazie del Golfo, guidate dall’Arabia Saudita – e l’Iran. Quest’ultimo cerca di sfruttare le opportunità offertegli prima dall’eliminazione di Saddam Hussein, poi dal ritiro americano dall’Iran. Si sente erede dell’impero persiano, che un tempo dominava la Mesopotamia. Vuole diventare egemone nell’intera regione del Golfo.
LA MEZZALUNA SCIITA Intende poi rafforzare la cd “mezzaluna sciita”, che si estende dall’Iran al Mediterraneo, attraverso l’Iraq – per il 60% sciita – la Siria di Basher al-Assad e l’Hezbollah libanese. Con le sue forze speciali del Quds, branca del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, conosciute anche come pasdaran, sostiene le minoranze sciite della penisola arabica, dominate dalle dinastie sunnite. Le tensioni fra l’Iran e l’Occidente rappresentano un altro fattore d’incertezza. Potrebbero sovvertire ogni previsione sugli assetti del Golfo ed anche su quelli interni dell’Iraq. L’Islam è tutt’altro che monolitico. La divisione fra sunniti e sciiti risale alla morte di Maometto nel 632 DC. Per i sunniti, il suo erede doveva essere designato dai religiosi più anziani. Per gli sciiti doveva provenire dalla famiglia del Profeta, essere cioè il suo genero Alì e, dopo l’uccisione di quest’ultimo, suo figlio Hussein, anch’egli ucciso e poi decapitato dai sunniti. Le differenze si sono a poco a poco approfondite. A differenza dei sunniti, gli sciiti hanno una potente gerarchia religiosa, impegnata politicamente. Aspettano poi un nuovo profeta, il Mahdi, che dovrebbe portarli alla vittoria e all’unificazione dell’Islam. Le differenze fra sciiti e sunniti sono sfruttate politicamente. Determinano sia i rapporti interni all’Islam e all’Iraq, sia quelli con l’Occidente. La situazione dell’Iraq è resa complessa ed esplosiva anche dal fatto che le sue varie fazioni politiche sono sponsorizzate dall’estero. L’Iran sostiene i partiti sciiti che gli sono favorevoli. Raggruppati nell’Alleanza Nazionale Irachena, sostengono al-Maliki e comprendono il partito Da’wa, quello di Moqtada al-Sadr e del suo Esercito del Mahdi, e – con qualche riserva, dato il suo maggior nazionalismo – l’Isci. L’Arabia Saudita sostiene i sunniti e gli sciiti nazionalisti del partito Iraqiyya, guidato dall’ex-primo ministro Iyad al-Allawi, uno sciita moderato, se non filo-americano, quanto meno anti-iraniano. La Turchia è l’unico paese che potrebbe neutralizzare l’aumento della potenza iraniana. E’ in grande prevalenza sunnita. Arabia Saudita e Usa sperano che rompa i suoi buoni rapporti con l’Iran e si ponga a capo di un blocco sunnita.
RAPPORTI SEMPRE PIÙ TESI E’ probabile che la situazione porti progressivamente a deteriorare i contrasti fra i due. L’Iran ha criticato la Turchia per la natura secolare del suo “modello” istituzionale; per il sostegno dato alla democratizzazione negli Stati della “primavera araba”; per l’appoggio agli insorti siriani contro il regime alawita; per aver accettato l’installazione sul suo territorio di un radar del sistema antimissili Nato, chiaramente diretto contro la minaccia missilistica iraniana. La normalizzazione della situazione curda e la cooperazione con la Turchia del Krg nella lotta al Pkk, farebbe cessare la principale ragione dei buoni rapporti di Ankara con Teheran. A parte gli interessi economici, si tratta della comunanza della lotta contro il secessionismo curdo. Per entrambi i paesi esso ha le sue basi nel Kurdistan iracheno. Qualora non dovesse scoppiare un conflitto nel Golfo, l’evoluzione della situazione irachena sarà centrale per la geopolitica di una ragione tanto importante per l’economia mondiale.
Fonte:Il Tempo

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