“ PRIMAVERA ARABA: IL FUTURO DELLA REGIONE SECONDO HUMAN RIGHT WATCH”

Aggiornato il 03/05/18 at 04:35 pm


DI:   ERCOLINA MILANESI
  IL Medio Oriente ha vissuto tre momenti epocali, tre giri di boa. Il primo è stato all’inizio degli anni
Novanta, con gli accordi di Oslo e Madrid e con la pace tra Israele e Giordania. Sembrava che tutto
fosse pronto per un nuovo inizio e invece arrivarono la seconda intifada e la risposta israeliana a
porre un freno alle speranze di cambiamento. L’11 Settembre 2001 ha scompaginato le carte in tutto
il mondo, e anche allora si pensava che le cose sarebbero potute cambiare  e in maniera
significante.
Non è possibile parlare di paesi arabi come se fossero un tutto omogeneo. La situazione in Nord Africa non è assimilabile a quella del Medio Oriente, e anche tra di loro, i paesi del Maghreb partono da storie e trascorsi diversissimi; stessa cosa vale per il Medio Oriente. L’unica caratteristica che possiamo definire come comune è la negazione dei diritti umani nel loro complesso. In tutti i paesi arabi, dal Marocco al Bahrein, Iran compreso, sono da sempre in atto politiche discriminatorie nei confronti di donne e minoranze etniche e religiose. E poi c’è un presente pieno di attese, anche questo uguale per tutti i paesi coinvolti dall’ondata rivoluzionaria. Aspettiamo tutti con trepidazione le elezioni, forse per la prima volta.
Sono ancora molte le cose da chiarire, molti i lati oscuri da portare alla luce, ma nel complesso pare il momento migliore per ridefinire posizioni e poteri in generale, a cominciare dalla Lega Araba come
ha fatto per la Libia, assumendo una posizione netta sia al suo interno che nei confronti delle Nazioni
Unite, ora dovrebbe sentirsi forte abbastanza per fare lo stesso nei confronti di Bahrein, o Siria, o
Yeman, e in generale sulle questioni relative ai diritti umani.
 
  Questo momento storico era in incubazione già da tempo, basti
pensare alla Palestina post-elettorale del 2006 o all’Onda Verde iraniana del 2009, fino ad arrivare
alle proteste anti-regime in Yemen e Bahrein nel 2010. La caduta di Ben Ali prima e di Mubarak poi
sono state le scintille decisive che hanno appiccato il fuoco, ma era già da tempo che si soffiava sulle braci del malcontento. Se la ‘primavera araba’ di quest’anno verrà ricordata nel tempo, sarà soprattutto perchè, per la prima volta nell’epoca post-coloniale, i movimenti popolari hanno rovesciato interi regimi e cacciato leader nazionali, con la sola forza della piazza.
Credo anche che sia inesatto parlare di rivoluzioni arabe in tutti i casi. La rivoluzione, nel suo
significato proprio, presuppone un cambio radicale e totale, nonchè la partecipazione di un’intera
nazione, che si riconosce come tale e si muove verso un comune obiettivo, quello del cambiamento.
Possiamo definire rivoluzioni quelle tunisine e egiziane; Siria, Yemen e Bahrein sembrano ugualmente coinvolte in un processo inarrestabile e radicale. Gli eventi marocchini, algerini o giordani no, non li classificherei come rivoluzionari.
anche in Libia vedo le caratteristiche di una rivoluzione, ma se nelle prime settimane, a febbraio,
le manifestazioni anti-regime potevano portare alla costituzione di un movimento di popolo, la deriva
guerrigliera che ha preso poi la protesta e la risposta del regime di Ghaddafi nei territori sotto il suo
controllo, le ha fatto perdere la possibilità di diventare espressione di malcontento di un’intera nazione.
La situazione della Giordania è molto diversa da quella degli altri paesi arabi. Le istanze portate avanti
dalle forze sociali e politiche chiedono la ridefinizione dei confini del potere della monarchia, non
la sua cacciata. Le riforme chieste sono volte a mettere a ridisegnare la mappa del potere. L’ampio
sistema di privilegi garantito dalla corona hashemita fa comodo a tanti: sarebbe impensabile aspettarsi una volontà nazionale unica per il rovesciamento del regime.
Il vero problema in Giordania è il divario tra giordani e palestinesi: c’è sempre una parte del paese,
la più numerosa, che rimane sottorappresentata nella vita politica, ed è quella dei cittadini di origine
palestinese e di passaporto giordano. Il potere resta in mano alla frazione giordana-giordana, rendendo complicati i rapporti tra le due componenti della società.
Guardando un telegiornale o leggendo un quotidiano di proprietà statale, non bisogna essere grandi
analisti per accorgersi che l’informazione che riceviamo è spesso lacunosa o addirittura non corretta, a maggior ragione se riguarda alcune zone del mondo.
Sulla carta la Giordania ha fatto molto per la tutela dei diritti delle donne migranti. Le riforme
legislative varate dal governo negli ultimi anni potrebbero essere d’esempio per tutti i paesi della
regione. Nei fatti però i risultati raggiunti sono alquanto deludenti. Gli abusi perpetrati sono sempre gli
stessi: il mancato pagamento del salario, la violenza, nelle sue diverse accezioni, la reclusione in casa, il mancato rispetto del giorno di riposo settimanale. I principali imputati sono quasi sempre i datori di lavoro, e gli strumenti per sanzionarli esistono, solo che non vengono applicati. Le autorità sono troppo inclini a chiudere un occhio e anche il Ministero del Lavoro, dopo l’istituzione di un comitato di controllo, non ha perseguito l’argomento con molto interesse.

 

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