Il regista iraniano (e curdo) Bahman Ghobadi: “Sarei pronto a rinunciare a un Kurdistan indipendente, se questo avvenisse a spese dell’Iran” – L’INTERVISTA

Aggiornato il 03/05/18 at 04:35 pm


di Farian Sabahi*

C’era una volta una bella ragazza che un brutto giorno è saltata su una mina e ogni pezzo del suo corpo è stato gettato in un posto diverso: in Iraq, in Iran, in Turchia e in Siria. Quella bella ragazza si chiamava Kurdistan”, così parla il regista persiano Bahman Ghobadi, di etnia curda, quando parla della sua terra. Un cineasta ormai noto, Ghobadi, soprattutto per la pellicola I gatti persiani. Ma il cui lavoro, e la vita stessa, partono dal Kurdistan. Tant’è che vive nella città di Erbil.

Quale futuro immagina per questa terra divisa e contesa?

Sono iraniano e sono curdo, l’Iran è il mio corpo e il Kurdistan è il cuore. Desidero un Kurdistan autonomo, all’interno dell’Iran, ma sono pronto a rinunciare a un Kurdistan indipendente se questo fosse fatto a spese dell’Iran, privandolo di una sua parte. Vorrei che ogni provincia dell’Iran avesse una sua autonomia, con uguali diritti.

Molti dei suoi film sono ambientati proprio in Kurdistan, al confine tra paesi diversi. Pensiamo a Il tempo dei cavalli ubriachi. E pure a Marooned in Iraq. In prima battuta sembrano delle commedie. Ma, poco alla volta, la trama lascia spazio alla tragedia. Perché questo cambiamento di registro?

Sono timido, per carattere. Svelo il mio dolore poco per volta. In persiano esiste un’espressione idiomatica, si dice “tagliare la testa con il cotone” e ora le spiego che cosa intendo. Il pubblico non è colpevole, non posso mostrare subito la violenza, creando tanto dolore. Mi devo muovere con accortezza. Vorrei far amare i miei personaggi, vorrei che lasciassero una traccia. Abbandonando la sala, dopo i titoli di coda, il pubblico deve però avere la consapevolezza della tragedia che colpisce il popolo curdo. I miei personaggi devono accompagnare lo spettatore, almeno per un po’. Il cinema è come l’amore: non puoi attaccare subito, ci vuole tempo per lasciare il segno.

Lei è stato aiuto regista di Abbas Kiarostami nella pellicola Il vento ci porterà via e attore nel film Lavagne di Samira Makhmalbaf. Come si è avvicinato al cinema?

Ho vissuto a lungo a Baneh, in una piccola città di confine, tra l’Iran e l’Iraq. Al tempo dello scià era l’unica località del Kurdistan dove ancora non c’erano cinema. Oggi, invece, in tutto il Kurdistan c’è soltanto una sala! Il mio incontro con il cinema è stato mediato dal cibo: da bambino adoravo mangiare i panini con il wurstel, ma mio zio me li comprava soltanto quando andavamo al cinema. Non potevo addentarlo finché non iniziava il film. Ricordo che mangiavo il panino e, distratto, pure la carta in cui era avvolto. Il panino al cinema era una sorta di rito, una cerimonia.

Quali sono i suoi sentimenti verso questa forma d’arte?

Per il cinema non provo amore, lo considero un’arma nella lotta per il mio paese. Ogni tanto mi suscita persino sentimenti negativi, molto forti, forse per le difficoltà che abbiamo noi cineasti in Iran, dove bisogna lottare contro la burocrazia e la censura. Ed è proprio a causa di queste difficoltà che sono invecchiato precocemente. Non ho mai avuto una sedia da regista, comoda, per progettare i miei film. Ho girato le prime scene con grande fatica, vendendo frigoriferi e risparmiando per pagare le spese di produzione. Per questo ho un sentimento duplice verso il cinema, di amore e odio.

Lei è ormai un regista famoso, quali sono gli ostacoli che ancora deve affrontare?

Non posso più tornare in Iran. E quindi la difficoltà maggiore è dover girare in una lingua straniera, diversa dal persiano, con attori che abitano fuori dal Paese, senza la possibilità di tornare in patria anche se, in fin dei conti, non ho fatto nulla di male.

Il cinema iraniano ha sempre dato voce alla protesta, fin dal tempo dello scià con il film Gav di Dariush Mehrjui, con La casa è nera di Forugh Farrokhzad e i documentari di Kamran Shirdel sui quartieri poveri di Teheran. Anche nelle sue pellicole c’è un messaggio politico, di protesta. Per quale motivo?

Odio la politica, ma la mia terra ne è intrisa e ormai i militari hanno scalato le vette del potere. Di conseguenza, non posso fare cinema evitando di parlare di politica. Questo vale per i film che ho girato nel Kurdistan, e pure per I gatti persiani dove i giovani vanno a una festa e rischiano di non uscirne vivi. I miei film sono schizofrenici, come lo siamo noi iraniani, avremmo bisogno di un buon psicologo! La politica entra ovunque. Anche nel cinema e nell’arte. Non puoi allontanarti dalla politica, intrisa di corruzione.

Come spesso avviene nel cinema iraniano, molti dei protagonisti delle sue pellicole sono bambini: perché?

Ogni bambino rispecchia un pezzo della mia infanzia. La scena in cui il bambino si picchia da solo, per esempio, è un remake di come, per punirmi quando combinavo un guaio, mio padre mi chiedeva di prendermi a sberle da solo. Come la piccola Agrin, vittima di violenza sessuale, ogni tanto anch’io mi facevo prendere dallo sconforto. Ogni tanto cercavo di impormi sui miei coetanei, e ogni tanto ero un monello che combinava dei pasticci. Ma, nella realtà, non sono mai riuscito a diventare come Satellite, il ragazzino in gamba di Turtles can fly, e guarire così i miei complessi. Come tanti iraniani, e come tanti curdi, a causa della guerra Iran-Iraq (1980-88) sono diventato adulto all’improvviso senza poter vivere pienamente la mia infanzia.

Perché i suoi film hanno spesso nomi di animali?

Non vorrei che le mie pellicole si perdessero, tra le migliaia che vengono prodotte ogni anno! Ogni film è come un figlio, rifletto a lungo sul suo nome. E quindi in ogni mio film c’è un animale, che amo e assume un ruolo, diventando un simbolo.

Perché ha scelto il titolo Turtles can fly (Le tartarughe possono volare, 2004) per la pellicola ambientata in un campo profughi curdo, sul confine tra Iraq e Turchia poco prima dell’invasione americana dell’Iraq nel marzo 2003?

La tartaruga è un animale dal nome strano. Quando ero bambino, durante la guerra, cercavo di separare la tartaruga dal suo guscio, con la speranza di farla andare più veloce. La tartaruga era metafora di quella bambina cieca che non poteva vedere, pensavo avesse un guscio sugli occhi che le impediva di vedere e quando è caduta in acqua avevo avuto l’impressione che le sue mani fossero simili a quelle della tartaruga. Ma le tartarughe non possono volare. Quando guardo al Kurdistan penso a una tartaruga che non raggiunge la meta. E questo non mi dà pace.

Come nasce il suo ultimo, film ambientato a Teheran, dove i protagonisti sono dei giovani musicisti obbligati a suonare di nascosto, frustrati dalle leggi della Repubblica islamica e decisi a lasciare il Paese?

Prima di girare questa pellicola avevo avuto una brutta crisi depressiva. Non riuscivo a creare nulla che mi piacesse. Un giorno un amico mi disse che facevo esattamente quello che volevano le autorità: ero inchiodato a letto, e stavo male. Per tirarmi su di morale decisi di rimettermi a suonare. Ed è così che ho incontrato i ragazzi del film: non sono attori, ognuno di loro dice quello che pensa, e il gruppo musicale Nikai ha veramente suonato per tre mesi in una stalla.

L’unico attore è Nader, il giovane che recita la parte del produttore: l’ho conosciuto a Mashhad dove vendeva dvd al mercato nero. Con il girato avrei potuto fare un documentario, ma non sono famoso come Michael Moore e non ho i finanziamenti di cui dispone lui. Per questo ho deciso di creare una pellicola in parte documentario e in parte fiction, dove di fatto non sono regista ma un ponte tra questi ragazzi che, tramite me, hanno potuto far sentire la loro voce nel mondo.

E quindi nella migliore tradizione del cinema iraniano, basti pensare ad alcune pellicole di Mohsen Makhmalbaf. Qual è il messaggio de I gatti persiani?

Il film spiega il divario che esiste tra le autorità e il popolo iraniano. In Iran ci sono tanti giovani che hanno voglia di libertà, ogni anno sono in 150mila a lasciare il paese.

E il titolo, come le è venuto in mente?

Nella Repubblica islamica cani e gatti sono haram, impuri e quindi fuori legge. Per questo non possono uscire di casa. Eppure, paradossalmente, i gatti persiani sono i più belli e i più costosi al mondo! Gli artisti iraniani sono un po’ come questi gatti: siamo i migliori ma le autorità ci obbligano a stare rinchiusi in casa.

I musicisti protagonisti del mio film non hanno un soldo in tasca. Ma quando è uscito il loro album in Francia hanno venduto moltissime copie. Sono bravi, ma al potere c’è un manipolo di ignoranti che si impone su un popolo colto. Prima di questo film non avevo avuto il coraggio di affrontare queste tematiche. Poi ho capito di avere paura e di dover combattere questo mio sentimento negativo. Con questi giovani appassionati di musica, che ho seguito con la telecamera per una ventina di giorni, ho imparato tanto. In primis il coraggio.

Farian Sabahi, docente presso l’Università di Torino e giornalista specializzata, scrive per il Sole24ore, Io Donna e Vanity Fair. Collabora con alcune radio locali e straniere

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