Iraq, non è un Addio alle armi

Aggiornato il 03/05/18 at 04:37 pm


di Paolo della Sala
La mia analisi sul futuro politico nell’Iraq dopo l’uscita delle ultime unità combattenti USA, con due preziose osservazioni del generale Carlo Jean. Su Il Secolo XIX di oggi. Il ritiro delle truppe americane dall’Iraq non significa un Addio alle armi, come precisa doverosamente un portavoce del Pentagono: rimarranno 50.000 militari in supporto all’esercito iracheno, con alcune migliaia di mercenari. L’Iraq di oggi sembra un Libano diviso tra curdi, sunniti e gli sciiti maggioritari, e sottoposto a pesanti ingerenze estere.
Il vuoto di potere politico si prolunga dalle elezioni di marzo, quando aveva vinto Iraqiya, la alleanza sciita nazionalista e “laica” dell’ex premier Allawi, che comprende anche dei sunniti e ha ottenuto 91 seggi su 325. Tuttavia il premier uscente Nuri al Maliki, leader della Alleanza per lo Stato di Diritto, dopo le lezioni si è alleato con la Iraqi National Alliance, nella quale cresce il ruolo degli sciiti fondamentalisti sadristi. Le due formazioni raggiungerebbero 159 seggi, ma non trovano l’accordo sul nome del nuovo primo ministro, e così si pensa a un governo bipartizan Maliki-Allawi, ma senza che nulla si concretizzi.
Il generale Carlo Jean -docente di Studi Strategici ed ex presidente del Centro Alti Studi della Difesa-, intervistato dal Secolo XIX, ritiene che “il vuoto politico possa essere risolto grazie a personalità indipendenti come l’ex ministro dell’Energia Kareem Waheed (dimessosi di recente per i continui black out di energia elettrica). Waheed -un ingegnere specializzato nel settore nucleare- ha subito il carcere sotto la dittatura di Saddam Hussein e si è poi trasferito nel Regno Unito. Si tratterebbe quindi di una personalità gradita sia agli sciiti moderati sia alla policy di Obama, in grado di trovare un compromesso che resta comunque difficile”.
Se saltasse la soluzione indicata dal generale Jean, si propongono scenari degni di un thriller, delineati dalla intelligence israeliana, cui allude anche l’ex ministro di Saddam Tareq Aziz, secondo il quale l’uscita dei militari statunitensi “lascia l’Iraq in mano ai lupi”.
Secondo queste analisi il premier uscente al Maliki starebbe pianificando una guerra contro i sunniti e sta cercando di eliminare i centri di aiuto finanziati dai sauditi e dai siriani, comprandone gli addetti.
I curdi sono furiosi con Obama perché non ha risolto la titolarità dei ricchi giacimenti di Kirkuk, parte della loro provincia autonoma. Ci sarebbe un piano curdo per impadronirsi militarmente della zona, da attuare già a settembre.
L’Iran invece vorrebbe prendere il controllo diretto della zona di Bassora. Oltre al petrolio del sud sciita, Teheran vorrebbe prendere possesso delle città sante di Karbala e Najaf, dove colpisce il terrorismo della jihad sunnita. La Siria oscilla tra l’asse coi turchi e i sauditi, rinforzato da un recente meeting in Libano, e le relazioni pericolose con l’Iran.
Un bilancio economico è doveroso. Secondo il Nobel per l’economia Joseph Striglitz, autore de La guerra da tre bilioni di dollari, il costo di Iraqi freedom sarebbe di 3000 miliardi di dollari, più alto del conflitto vietnamita ai costi attuali. Per il generale Carlo Jean il computo di Striglitz va riportato sotto ai 1000 miliardi, ma il costo per soldato rimane altissimo. Striglitz parla di 400.000 dollari per soldato, e il generale Jean aggiunge “La logistica deve provvedere ai rifornimenti di armi, cibo e servizi in territori complicati. Nell’Afghanistan, dove saranno trasferite le truppe che erano di stanza in Iraq, si può arrivare a un costo per unità combattente molto maggiore”.
Fonte:Blogsfere
 

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