Il Washington Post scopre tratta di prostituzione in Iraq e Afghanistan da parte dei commandors Usa

Aggiornato il 03/05/18 at 04:30 pm


di Isidoro Patalano
Una bambina irachena, 12 anni, costretta a prostituirsi nei seminterrati di Baghdad mentre le guardie private americane, facendo una colletta di pochi dollari, si mettono in fila. Questo è il triste quadro che non muore mai, ragazze reclutate nell’ Est Europeo costrette a prostituirsi con la promessa di un lavoro come colf o estetiste a Dubai, ma poi portate e segregate nella capitale dell’ Iraq.
L’ ultima eredità del presidente americano Obama dal suo predecessore Bush: il volto sfruttato delle donne (molto spesso dai contractors USA), in nome di quell’ idolo che spesso diventa una malattia: il sesso.
Ma si sa bene che ai contractors o agli impiegati del governo americano è severamente proibito rendersi protagonisti di traffici sessuali illeciti nelle zone di guerra. Chiunque si renda responsabile dei traffici sessuali verrà sospeso e poi denunciato alle autorità, ma i risultati sono scarsi. «Non c’ è neppure un processo aperto» dice l’ ex detective di Human Rights Watch, Martina Venderberg. «Insomma non c’ è volontà di far rispettare la legge».
Il misfatto è stato scoperto da un inchiesta del Central for Public Integrity ripresa ieri dal Washington Post. Un ex guardia racconta : «ho visto io stesso guardie più anziane raccogliere soldi mentre ragazzine irachene, tra cui bambine di 12 e 13 anni, si prostituivano. Ho reso noto il tutto ai miei superiori, ma nessun provvedimento è stato mai preso, mi rattrista anche parlarne».
Stacy De Luke, il portavoce della ex Blackwater (il gruppo privato già tristemente famoso per le stragi di civili in Iraq) risponde alle accuse che il Washington Post ha fatto anche contro la stessa organizzazione: «Queste accuse sono anonime e senza prove: la politica dell’ azienda vieta i traffici umani».
In Afghanistan la prova della tratta di donne è venuta alla luce, tra il 2006 e il 2007, quando 90 ragazze furono liberate dopo un raid nei bordelli afghani. Nigina Mamadjonova, capo dell’ unità anti-tratta degli esseri umani, in Afghanistan, ha confermato che la provenienza degli uomini frequentatori dei bordelli afghani e iracheni erano per lo più occidentali, e in particolare americani. Alla fine del 2007, dei responsabili della società che fornisce la security all’Ambasciata americana di Kabul, Armour Group, hanno fatto sapere che alcuni dei loro dipendenti hanno frequentato questi bordelli, peraltro pubblicizzati come ristoranti cinesi, e sono stati accusati di essere implicati nella tratta umana. Un portavoce della società ha poi affermato che è in corso una causa legale con questi poiché una norma vieta esplicitamente all’impresa la divulgazione di notizie riservate che riguardano direttamente il governo degli Stati Uniti.
Alcuni procuratori del Dipartimento di Giustizia lamentano il fatto che la politica di tolleranza zero è per lo più inapplicabile, in gran parte perché non c’è una netta distinzione tra induzione alla prostituzione e prostituzione volontaria: «Siamo interessati a perseguire ogni nostro connazionale che sfrutta la prostituzione spendendo ingenti risorse per poi trovarci di fronte a casi di semplice prostituzione volontaria?». Un Procuratore federale, che preferisce restare anonimo si interroga sulla questione: «Molte sventurate non hanno il coraggio o semplicemente i mezzi per denunciare il loro stato. E se pure una lo facesse, basta che qualcuno le dia un “bigliettone” per farla tacere e ridimensionare il tutto a “semplice” prostituzione volontaria e non organizzata». Gordon, ex manager dell’ Armour Group ha chiesto alle agenzie governative di prendere sul serio le accuse e prendere provvedimenti: « Se è così grave e se avete una politica di tolleranza zero, perché non state facendo niente? »
Fonte: il Levante

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