
Aggiornato il 04/07/25 at 04:35 pm
di Shorsh Surme ———-Nel cuore della Palestina ferita si erge Gaza, quel piccolo pezzo di terra che si erge alto e testimone di uno dei crimini più brutali, le cui immagini si manifestano nell’oppressione e nella povertà umana di cui nessun popolo, tranne il fiero popolo di Gaza, ha mai sofferto, oltre all’ingiustizia storica di vivere sotto assedio per più di quindici anni, bombardati dal cielo, affamati dalla terra e sorvegliati dal mare. Gaza vive una vita che non assomiglia alla vita e resiste alla morte che si insinua da ogni direzione, non solo attraverso le bocche dei carri armati e degli aerei, ma anche attraverso le casse di cibo che trasportano farina ma che allo stesso tempo rubano la vita.
Dal 7 ottobre, la popolazione di Gaza è costretta a vivere in una dura equazione che riduce i suoi sogni e le sue speranze a nient’altro che la sopravvivenza. Ciò era legato all’aiuto americano ricevuto, non come una mano tesa con amore o solidarietà, ma come uno strumento politico mascherato da umanità. Dall’esterno è una misericordia, ma all’interno è un sudario bianco che attende ogni visitatore. Non si tratta semplicemente di pasti, medicine o aiuti finanziari, bensì di messaggi in codice che comportano condizioni e sanzioni, con la minaccia di non darli qualora il palestinese si rifiutasse di chinare il capo all’aggressione sionista.
La politica americana nei confronti della popolazione di Gaza non si misura solo in base al numero di camion che attraversano i valichi o al numero di bagagli lanciati dagli aerei, ma piuttosto in base all’entità delle condizioni imposte sotto l’egida del “finanziamento condizionato”, una politica che è in netto contrasto con il “sostegno militare incondizionato” che gli Stati Uniti forniscono a Israele. Come può il mondo credere che la stessa mano che porge le briciole ai bambini di Gaza sia la stessa che finanzia i carri armati che uccidono donne e bambini e non mostrano pietà per nessuno? Questa è la contraddizione morale più orribile nella politica internazionale moderna, dove fornire aiuti ai palestinesi diventa una copertura per insabbiare i crimini dell’occupazione e uno strumento per creare uno stato di assuefazione all’ingiustizia in cambio della sussistenza. Oppure diciamo in cambio del sudario.
La realtà odierna a Gaza, alla luce della guerra tra Israele e Iran, è più brutale che mai e va oltre quanto riportato dai notiziari e sulle varie piattaforme dei social media. L’aiuto americano non significa salvare vite, ma piuttosto posticipare la morte inevitabile, prima o poi.
Il cibo distribuito alle famiglie è avvolto nella paura dei bombardamenti, l’acqua consegnata tramite camion è soggetta a bombardamenti incessanti e le scuole finanziate da questi aiuti vengono rapidamente trasformate in rifugi temporanei quando le case vengono bombardate, e potrebbero persino essere bombardate esse stesse quando i sionisti non hanno più nulla da bombardare a causa della devastazione delle loro case. A Gaza nulla è immune, né le persone né gli alberi, e perfino gli aiuti stessi diventano un peso quando vengono usati come strumento di cecchini per un popolo indifeso che ha sofferto orribilmente.
Ancora più amaro è il tentativo di alcuni canali arabi di commercializzare questi aiuti come una manifestazione dell’umanitarismo occidentale, mentre Gaza è isolata dal mondo esterno, le vengono negate medicine, elettricità, acqua e persino la vita in tutte le sue forme, e la sua resistenza è classificata come terrorismo. Nonostante si tratti di una difesa del territorio, come possiamo parlare di “aiuto umanitario” alla luce di questo grave assedio? In questo caso, l’aiuto è una partnership implicita in un progetto che mira a soffocare la vita fino a farla cessare di esistere.
L’aiuto delle grandi potenze è condizionato al silenzio e alla pazienza nei confronti dell’occupazione, nonché all’accettazione dell’umiliazione e del degrado, e questo non può essere considerato un vero sostegno. Piuttosto, diventa una specie di punizione velata, aumentata o diminuita a seconda dell’umore politico straniero del campo sionista. Forse l’aspetto più pericoloso di questa scena è il tentativo di trasformare il palestinese da combattente con una causa in una vittima sempre bisognosa di pietà. Questa rappresentazione offusca l’essenza del conflitto e il palestinese viene trasformato nella coscienza globale in una persona affamata che deve essere salvata, anziché come proprietario di una terra e di diritti a cui deve essere fatta giustizia.
In questo contesto, i progetti di “sviluppo economico” a Gaza vengono presentati come progetti di salvataggio, quando in sostanza sono tentativi di sottomettere la popolazione e normalizzare l’occupazione attraverso aiuti vuoti. Al palestinese viene offerto di lavorare nelle fabbriche nemiche, di barattare il suo diritto alla libertà con un lavoro sotto sorveglianza o con un sacco di farina, a condizione che non partecipi ad alcuna attività politica. Si vuole che dimentichi l’assedio, la Nakba, i profughi, Gerusalemme e la terra, e accetti le briciole in cambio del silenzio. Ma il popolo palestinese, in particolare gli abitanti di Gaza, ha respinto questa logica umiliante, dimostrando più volte che la dignità umana non si può comprare con gli aiuti o con la contrattazione.
Pertanto, oggi la battaglia a Gaza non è più solo con l’occupante che la bombarda giorno e notte, ma con la comunità internazionale che collude con questi bombardamenti in nome degli aiuti e chiude un occhio sui crimini sionisti con il pretesto di sostenere la stabilità. Alla luce di questa realtà, il concetto di aiuto internazionale deve essere ridefinito: come mezzo di distrazione ed estensione del garage in condizioni che garantiscano controllo e resa. Quanto alla popolazione di Gaza, non rifiuta gli aiuti, ma rifiuta che vengano forniti a scapito della loro dignità. E da usare come alternativa alla giustizia e alla terra, o come tangente per distogliere l’attenzione dall’occupazione. Questo popolo ha resistito, affrontando guerre, distruzione, povertà ed emarginazione, non perché amasse la sofferenza, ma perché ha scelto di vivere ergendosi a testa alta, non inginocchiandosi.
In sintesi, lo slogan “pane per la morte” non è solo una descrizione della vita quotidiana della popolazione di Gaza, ma anche una chiara accusa all’intero sistema internazionale che ha reso la vita nella Striscia di Gaza ostaggio di decisioni politiche che vanno oltre l’umanità e sfruttano la sofferenza della popolazione. Oggi, il nostro dovere morale come musulmani non consiste nell’inviare un aereo carico di aiuti umanitari, ma piuttosto nell’aprire le frontiere e i valichi di frontiera, togliere l’assedio e chiamare a rispondere delle proprie azioni coloro che bombardano bambini il cui unico crimine è quello di essere nati in una terra la cui gente era destinata a lottare per l’esistenza. Per questo motivo Gaza non vuole morire di fame; vuole vivere come si addice a un popolo orgoglioso che ha una terra e un ulivo, non come una creatura che respira tramite le macchine americane per la sopravvivenza. Ogni intervento che non tenga conto di questo fatto è un travestimento e il suo vero scopo è prolungare l’emorragia, non fermarla. Per saperne di più: