Navi silenziose: il doppio standard della coscienza internazionale di fronte alla tragedia curda

Aggiornato il 10/10/25 at 08:37 pm

di Husamattin TURAN ———-Nelle terre del Medio Oriente, dove i confini sono stati tracciati con il sangue, il discorso sull’“umanità” è da tempo diventato il decoro degli interessi geopolitici. Sulle macerie della guerra civile siriana sono germogliate strutture radicali che, sotto la retorica dell’“umma”, hanno massacrato drusi, alawiti, yezidi e curdi; eppure, l’opinione pubblica globale è rimasta in gran parte indifferente di fronte a questi massacri, mostrando un riflesso di coscienza solo di fronte alle tragedie “mediatiche”. La sensibilità umanitaria suscitata dalle navi partite per Gaza non si è mai mossa né per le donne violentate a Şengal, né per i bambini bruciati vivi nelle cantine di Cizre. Questa è la manifestazione più nuda della selettività morale della comunità internazionale.

Il progetto di annientamento sistematico del popolo curdo non è soltanto il prodotto dei periodi di guerra, ma anche della fredda complicità politica di quella che viene chiamata “pace”. Negli ultimi cinquant’anni, 7.500 insediamenti curdi di cui 3.800 villaggi sono stati distrutti con la forza, e circa dieci milioni di curdi sono stati sradicati dalle loro terre. Questo esodo forzato, che nei rapporti del Centro di Monitoraggio degli Sfollamenti Interni delle Nazioni Unite è definito come “dislocamento dovuto a conflitti non internazionali”, rappresenta in realtà la cancellazione fisica, culturale e demografica di un’identità nazionale.
La violenza sistematica dello Stato colpevole non può essere spiegata soltanto con il paradigma della sicurezza. Si tratta di una vera e propria politica di cancellazione nazionale. Lo spopolamento del territorio curdo, attraverso incendi di villaggi e deportazioni, è stato attuato come un meccanismo di “colonialismo interno”. I corpi delle donne lasciati per giorni nelle strade, i cadaveri dei giornalisti trascinati dietro veicoli blindati non sono semplici “violazioni dei diritti umani”, ma, per dirla con Hannah Arendt, rappresentano la morte politica dell’umanità moderna.
Nel frattempo, gli attori del discorso umanitario globale sono rimasti in silenzio. Il concetto di “comunità internazionale” è diventato una copertura legittimante per le reti di interessi imperialisti; il linguaggio dei diritti umani si è trasformato nella vetrina diplomatica di una sensibilità selettiva. Quando muoiono i bambini curdi, le navi non partono; quando vengono bombardate le città curde, non si diffondono comunicati. I curdi sono percepiti come un popolo che “non rientra” né nell’identità religiosa del mondo islamico, né in quella nazionale della diplomazia occidentale.
Questo silenzio non è solo politico, ma un vero crollo etico. La frase di Albert Camus, “Uccidere un uomo significa uccidere un concetto di umanità”, è ormai ironica in queste terre: qui si uccidono persone mentre il concetto stesso di umanità viene applaudito. L’indifferenza dei panislamisti verso la morte dei curdi, unita all’ipocrisia della società civile internazionale, produce una “misericordia selettiva” ridotta a mera mercificazione morale.
Oggi, in Siria, strutture ideologicamente affini ai resti dell’ISIS prendono di mira drusi e alawiti, mentre in Turchia la retorica del potere riesce a presentare tale violenza come “resistenza dell’umma”. Gli stessi ambienti reprimono le rivendicazioni nazionali curde con l’etichetta di “terrorismo”, imponendo questa terminologia anche alla percezione globale. Così, la lotta per la libertà del popolo curdo resta esclusa dai confini stessi del discorso sui diritti umani.
La domanda da porre a coloro che si imbarcano sulle navi per Gaza è, in realtà, un esame di coscienza: mentre nel territorio curdo le città vengono rase al suolo, i villaggi cancellati dalle mappe e i corpi trascinati dietro mezzi corazzati, perché non è salpata neanche una nave? Se l’umanità viene misurata in base a una geografia, a una setta o all’interesse dei media, allora in questa epoca ciò che muore più di tutto è l’umanità stessa.