Il Ruolo di Israele in Medio Oriente: Forza Modernizzatrice o Strumento di Trasformazione Egemonica?

Aggiornato il 13/06/25 at 10:07 am

di Hüsamettin TURAN———- Il Medio Oriente, nel corso del ventesimo secolo, si è configurato come una geografia politica fragile, modellata dal vuoto di potere lasciato dal ritiro dell’imperialismo, dalla statalizzazione autoritaria dei nazionalismi e dai conflitti ideologici. Questa struttura regionale è stata spesso caratterizzata da governi sostenuti da potenze esterne, da tentativi di modernizzazione non basati sul consenso popolare e da regimi che hanno rapidamente trasformato le promesse di giustizia sociale in strumenti autoritari. In questo contesto si è affermato Israele, un attore unico e contraddittorio che si distingue nettamente dalle altre entità politiche della regione.
La fondazione di Israele rappresenta non solo la costruzione classica di uno stato-nazione, ma anche una rottura radicale con le strutture politiche e sociali esistenti nella regione. A differenza degli altri stati mediorientali, Israele ha cercato di costruire istituzioni di tipo liberale occidentale e si è rapidamente trasformato in una società tecnologica, diventando l’unico attore in grado di rappresentare la transizione del Medio Oriente all’era digitale. Questa struttura ha portato non solo a una rottura gestionale, ma anche epistemologica: Israele ha costruito un modello che esclude in gran parte i legami tradizionali che formano la memoria collettiva della regione, come il panarabismo, l’ideale della umma e la lealtà tribale.
Queste differenze non si sono limitate alla struttura interna, ma si sono riflesse anche nelle relazioni esterne e nel ruolo regionale di Israele. Le guerre arabo-israeliane hanno profondamente segnato il rapporto di Israele con i popoli della regione, fondandolo su traumi e contrapposizioni. Tuttavia, col tempo, questa ostilità si è trasformata in relazioni più complesse, basate su interessi reciproci. Nel XXI secolo, Israele ha avviato processi di avvicinamento diplomatico ed economico con molti paesi del Golfo, creando alleanze con attori precedentemente considerati nemici. In questa nuova fase, Israele non è più soltanto uno stato basato su interessi nazionali, ma ha assunto anche un ruolo attivo nel ricostruire gli equilibri regionali.
Secondo la mia personale valutazione, Israele rappresenta l’unica dinamica rivoluzionaria nel contesto mediorientale attuale. Questo carattere rivoluzionario va ricercato non nei movimenti popolari classici, bensì nelle rotture sistemiche che esso provoca. L’impatto di Israele sulla regione non si manifesta sotto forma di insurrezione armata popolare, bensì attraverso superiorità tecnologica, capacità istituzionale, manovra diplomatica e chiarezza ideologica. Israele non ha solo costruito sé stesso, ma ha anche colpito i codici politici marci della regione. Perciò, il suo impatto trasformativo non può essere spiegato soltanto con la forza militare; Israele rappresenta anche un cambiamento paradigmatico sul piano mentale.
Al centro di questo cambiamento di paradigma troviamo la concezione di cittadinanza basata sull’individuo, un modello di governance focalizzato su sicurezza e tecnologia, e legami diretti con l’economia globale. A differenza degli altri regimi della regione, Israele ha saputo rafforzare sia la stabilità interna sia la propria sfera d’influenza esterna. Naturalmente, non si può affermare che questo modello sia inclusivo, egualitario e giusto per tutti i popoli. Dal punto di vista del popolo palestinese, questa trasformazione ha prodotto espropriazione, discriminazione, oppressione e assenza di statuto. Ciò ci porta a comprendere la forza rivoluzionaria di Israele non come liberatrice, bensì come una forma di egemonia ordinatrice e ristrutturatrice.

Il nuovo ordine costruito da Israele ha realizzato quella stabilità politica e istituzionale che i regimi arabi modernizzatori non sono riusciti a ottenere. I tentativi di modernizzazione militare-burocratica in Egitto, Siria, Iraq e Libia si sono rivelati o di breve durata o si sono trasformati in sistemi oppressivi che escludevano la partecipazione popolare. Israele, invece, è una delle poche realtà in grado di unire comunità diverse sotto un’unica struttura, risolvere conflitti interni attraverso mezzi istituzionali e costruire legami organici con il sistema globale. Pertanto, la presenza di Israele nella regione non implica solo dinamiche conflittuali, ma anche potenzialità di soluzione.
Tuttavia, questo potenziale di soluzione non nasce da un processo guidato dalla volontà dei popoli della regione, bensì si alimenta di un futuro elitario fondato su controllo, sicurezza e tecnologia. In questo senso, la visione del futuro proposta da Israele non rappresenta un progetto di libertà in cui i popoli diventano soggetti attivi, ma piuttosto un ordine in cui le identità sono controllate e i confini sono definiti attraverso conoscenza, software e intelligence. Non si tratta di una rivoluzione in senso classico, ma di un tentativo di ricostruzione che scuote strutture centenarie.
Il ruolo di Israele non può essere definito né come completamente salvifico né semplicemente occupante. Il suo impatto si trova al centro di una trasformazione piena di contraddizioni. La sua natura rivoluzionaria è costruttiva piuttosto che distruttiva, elitaria piuttosto che popolare, ordinatrice piuttosto che liberatrice. Anche se è discutibile se Israele sia l’unico attore capace di superare i modelli ideologici ormai in crisi del Medio Oriente, è innegabile che rappresenti l’unica dinamica con la capacità di trasformare radicalmente la regione.