Shengal e Makhmour in lotta per la vita

Aggiornato il 08/06/21 at 09:48 pm

IL PICCOLO — Una delegazione di diciotto persone, tra giornalisti, fotografi, fumettisti, operatori umanitari dell’Associazione Verso il Kurdistan, ha raggiunto il 26 maggio il Kurdistan iracheno per una missione umanitaria che aveva come obiettivo quello di conoscere la realtà della regione di Shengal (Sinjar, in arabo), governatorato di Ninawa, nord Iraq, al confine con la Siria, dove, nel 2014, c’è stato un tentativo di genocidio (il 74’ ferman della loro storia) da parte di Daesh, quando migliaia di donne e ragazze yazide furono rapite come “prede” e vendute come schiave sessuali sui mercati di Raqqa e di Mosul (ad un prezzo tra i 5 e 20 dollari), mentre uomini e ragazzi sono stati trucidati e sotterrati in fosse comuni. Anche i bambini yazidi , rapiti dall’Isis , sono allora stati fatti oggetto di loschi traffici: molti sono stati venduti per pochi dollari a trafficanti arabi che li convertivano, acquisendo così dei meriti per il paradiso di Allah (!) oltre a sfruttarli nei lavori domestici; altri venivano indottrinati, imbottiti di droghe e mandati ad ingrossare le milizie di Daesh.

La popolazione di Shengal appartiene in maggioranza all’etnia kurda e pratica lo yadizismo, una religione monoteista molto antica, che si richiama ai ritmi della natura, al rispetto delle piante e degli animali ed è considerata “eretica” dagli islamisti.

La missione aveva come obiettivo quello di contribuire al miglioramento dei servizi e dell’assistenza sanitaria nel distretto di Shengal attraverso la realizzazione di una struttura sanitaria attrezzata per far fronte alla pandemia da coronavirus e per la cura di gravi malattie, un progetto ambizioso di oltre 100 mila dollari, sostenuto dall’Associazione Verso il Kurdistan di Alessandria, Fonti di Pace di Milano, dall’Arci di Firenze e dalla Cgil dell’Emilia Romagna.

Non è stato facile raggiungere Shengal.

Da Hawler e da Sulemanija, per due giorni, abbiamo percorso inutilmente i trecento chilometri di strada verso Mosul, attraverso venti posti di blocco controllati dalle varie milizie che si spartiscono il territorio: peshmerga di Barzani, militari iracheni, milizie turcomanne, milizie sciite.. Vicino a Mosul, nella zona controllata dalle milizie turcomanne e sciite, siamo stati trattenuti per ore in caserma, dove abbiamo subito pesanti ricatti e minacce e alla fine siamo stati rispediti indietro.

Al terzo giorno, abbiamo riprovato, percorrendo la stessa strada Hawler – Mosul – Shengal, questa volta accompagnati da due funzionari del governo iracheno. A questo punto, nessun problema ai vari ceck point, neppure il controllo dei documenti.

Superati tutti i posti di blocco, attraverso una pianura arida e brulla, color ocra, senza alberi, che non ha visto una goccia d’acqua per un anno intero, con rari campi di grano, greggi sparse, strade devastate, case bombardate e distrutte, case ricostruite a metà, polvere dappertutto, siamo arrivati al villaggio di Khamsour, dov’era prevista l’ospitalità della delegazione presso il centro di accoglienza.

All’entrata della cittadina, una lunga fila di immagini di martiri, ultimo regalo dell’occupazione jiadista: a destra, quelle delle donne, a sinistra, quelle degli uomini.

Per non dimenticare.

Abbiamo visitato città e villaggi della regione, incontrato amministratori, rappresentanti dell’assemblea popolare, del movimento delle donne, il comitato per la salute per il progetto dell’ospedale, le unità di autodifesa maschili e femminili di Shengal, YBS e YJS.

Impossibile riportare ogni cosa emersa degli incontri. Si è discusso di autogoverno, autodifesa, democrazia dal basso e di genere, ricostruzione e ripresa della vita sociale, cura delle “ferite” delle donne, dell’ accordo di Baghdad del 9 ottobre tra governo regionale del Kurdistan e governo centrale iracheno – sponsor la Turchia – che pone una pesante ipoteca sul riconoscimento dell’autogoverno della società yazida.

Il sistema di autogoverno, opera come una piramide: alla base, stanno le assemblee di quartiere che individuano le esigenze del quartiere o del villaggio, nominano i rappresentanti all’assemblea popolare che discute e decide le priorità e le possibili soluzioni ai vari problemi, l’amministrazione della municipalità esegue.

Abbiamo visitato il cimitero dei martiri – Shahid – Lak – file di tombe e lapidi di caduti nella difesa di Shengal, ordinate e tenute con cura, immagini e simboli della tradizione yazida. Al centro, la tomba di Zeki Sengali, fondatore del Pkk a Shengal, ucciso nel 2018 da un drone turco. Particolarmente commovente è stato l’incontro con i famigliari dei martiri: una donna, racconta: “Io sono la mamma di un martire, mio figlio è caduto nella difesa di Shengal, insieme a lui è stato ucciso anche un suo amico d’infanzia, per cui oggi sono la mamma di due martiri”. Intanto, un bambino che ha perso il suo papà, si addormenta in braccio al nonno.

L’intero centro storico di Sinjar City è stato completamente raso al suolo dalla furia distruttrice di Daesh e dai successivi bombardamenti, tutt’intorno polvere e silenzio. Un ragazzo che ci accompagna ricorda la resistenza casa per casa, contro l’avanzata dell’Isis, i morti e i feriti per le strade.

In città, prima dell’occupazione islamista, vi abitavano 100 mila persone, mentre in tutta l’area, la popolazione ammontava a circa 450 mila. Oggi, con il progressivo ritorno delle famiglie, siamo a 250 mila. Oltre agli yazidi, stanno tornando sciiti, turcomanni, alcune famiglie cristiane, mentre non tornano gli arabi sunniti, alcuni dei quali compromessi con i massacri di Daesh.

Abbiamo visitato due cittadine distrutte, Girzerik e Tel Ezer.

Girzerik, una città di 25 mila abitanti prima dell’arrivo dell’Isis, è oggi totalmente disabitata. Un silenzio spettrale e una desolazione infinita avvolge come un sudario le case ridotte in macerie.

Durante l’assedio di Daesh, gli abitanti hanno resistito per ore, prima di arrendersi: gli uomini sono stati uccisi e sotterrati in una fossa comune non ancora svelata (sono centoventi le fosse comuni finora scoperte in tutta l’area), mentre le donne sono state rinchiuse in una casa prigione a Tel Ezer, destinate poi ad essere vendute come schiave sessuali o date in matrimonio ai jiadisti. Sono state liberate il 30 maggio 2017 dalle forze di autodifesa kurde di Shengal.

Tel Ezer è una cittadina che, prima dell’arrivo dello Stato islamico, aveva 16 mila abitanti. Oggi le famiglie stanno cominciando a tornare. E’ qui che è in corso la costruzione dell’ospedale previsto nel nostro progetto. Il Comitato promotore della Sanità di Shengal ci dice che, vista l’emergenza, pensano di concludere i lavori entro l’estate.

Da parte nostra, abbiamo ribadito l’impegno a sostenere il finanziamento previsto e, al più presto, invieremo i fondi raccolti. Con l’occasione, abbiamo consegnato un migliaio di mascherine anticovid donate da staffetta sanitaria .

Altra tappa del nostro viaggio è stato il Campo profughi di Makhmour, sotto embargo dall’agosto 2019, più volte assaltato dalle bande nere dell’Isis e bombardato dai droni turchi.

Nel Campo, dove da anni operiamo con progetti umanitari, non siamo potuti entrare. Al ceck point delle milizie irachene, dopo un’ora di attesa sotto un sole cocente, abbiamo ricevuto un netto rifiuto. La pretesa delle milizie era quella di accompagnare la delegazione fin all’interno del Campo, per tutto il tempo della permanenza. Non solo. Alla nostra richiesta, di far uscire un gruppo di abitanti dal Campo per andare a pranzo in un ristorante, stessa pretesa: la richiesta di essere presenti da parte dei militari iracheni. Abbiamo rinunciato, per non creare un precedente.

Nell’area antistante al posto di blocco, ad alcuni rappresentanti dell’assemblea popolare e al sindaco del Campo, abbiamo consegnato un migliaio di mascherine anticovid e i 9.600 euro del progetto “Hevi Center” raccolti per i bambini con sindrome di down e affetti da gravi malattie.

“Ser ciava” è un saluto che significa “ti porto negli occhi”. Ma è anche un augurio, una promessa a ricordarti per sempre. Ci salutano portandosi le mani sul cuore.

Come regalo, invece, i droni turchi sono tornati sabato, con il loro carico di morte, a bombardare il Campo profughi di Makhmour, facendo tre morti e numerosi feriti.

 

A cura di Associazione Verso il Kurdistan