Trump riscopre l’alleato Erdoğan e sacrifica i curdi

Aggiornato il 15/11/18 at 09:16 pm

di Lorenzo Bianchi – Una ritirata caotica, zigzagante, contraddittoria, parallela alla riscoperta di un vecchio alleato infedele, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. E’ la politica di Donald Trump nel tritacarne inarrestabile che continua a macinare vite nel Kurdistan anatolico e nel nord della Siria. Il sultano sembra avere ora mano ancora più libera contro i curdi che hanno sbaragliato gli uomini del Califfato pagando il prezzo di centinaia di caduti. Il 28 ottobre Istanbul ha ospitato un vertice a quattro, Turchia Francia, Germania e Russia. Quattro giorni dopo, nella giornata mondiale dedicata alla città martire di Kobane, assediata per mesi dall’Isis nel 2014, i militari turchi hanno bombardato Selim e Kor Eli, due villaggi a ovest del capoluogo, uccidendo una bambina di 10 anni. Il due novembre hanno preso di mira Tal Abyad.

Le forze curde di autodifesa Ypg e Ypj hanno abbandonato le operazioni cominciate pochi giorni prima al fianco delle forze speciali statunitensi contro le ultime sacche di resistenza degli uomini in nero a Hejin, nella provincia orientale siriana di Deir Ez Zour, e hanno ripiegato su Kobane. Dopo aver incassato la liberazione del reverendo evangelico Andrew Brunson, Trump non perde occasione per compiacere l’alleato di un tempo che ora insegue il sogno neo-ottomano teorizzato dal suo ex ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu nel libro intitolato “Profondità strategica”. La Turchia, assieme all’Italia, è uno degli otto Paesi esentati dalle sanzioni americane per le vitali l’importazioni del petrolio iraniano (che in passato avevano colpito la Ak Bank). Dal primo novembre i soldati statunitensi pattugliano assieme ai turchi le strade di Manbij, una città siriana a ovest dell’Eufrate che era stata conquistata dallo Ypg curdo.

Coperte da questo ombrello, forze islamiche associate all’operazione turca “Scudo dell’Eufrate” hanno attaccato a colpi di mitragliatrice pesante le postazioni curde nel villaggio di Al Hamran a nordovest della città. Ne ha dato notizia l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Nell’offensiva sono stati anche colpiti contadini impegnati nella raccolta delle olive. Dopo una visita ad Ankara il vicesegretario di stato statunitense Matthew Palmer ha annunciato che il suo governo ha posto taglie su dirigenti del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan. Gli Usa hanno offerto 5 milioni di dollari per la “localizzazione o identificazione” di Murat Karayilan, quattro per Cemil Bayik e tre per Duran Kalkan.

Sul campo continua lo stillicidio di una guerra sanguinosa e ormai sparita dal faro dei media. Le forze armate di Ankara affidano a twitter l’informazione che 15 militanti del Pkk sono stati “neutralizzati” con missioni aeree a Gara, Zap e ad Avasin-Basyan, tre regioni dell’Iraq settentrionale. Nella provincia turca di Hakkari, l’estremo lembo orientale del Kurdistan turco, sette soldati di Ankara hanno perso la vita e 23 sono rimasti feriti quando è saltato in aria un deposito di esplosivo e di munizioni difeso da combattenti del Pkk. La faglia della guerra sembra essersi risvegliata anche più a sud nelle zone centrali della Siria. Nonostante la tregua concordata dalla Russia e da Ankara il 15 ottobre a nord di Hama si sono scontrati in due giorni diversi i ribelli e le forze fedeli ad Assad. Sul campo sono restati 23 miliziani e 8 soldati.

Il “Sultano” continua a recitare la parte del difensore dei diritti umani cavalcando l’uccisione del dissidente saudita Jamal Kashoggi nel consolato del Regno delle sabbie a Istanbul. Nei giorni scorsi ha sostenuto di aver consegnato le registrazioni che documentano l’assassinio del giornalista a Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna e Canada. Continua il goffo tentativo di atteggiarsi a paladino della libertà di stampa su un palcoscenico mondiale (e soprattutto di cogliere un’ottima occasione per puntare l’indice accusatore contro i sauditi, potenti e ricchi rivali nel campo sunnita). Peccato che nel regno del “Sultano” frotte di giornalisti siano finiti dietro le sbarre. E che la repressione dei presunti seguaci dell’imam Fethullah Ghülen, accusato di aver orchestrato il golpe fallito del 15 luglio 2016, continui a tappe forzate. La procura di Istanbul ha spiccato 103 mandati di cattura contro altrettanti uomini delle forze armate. Settantatre, rastrellati in 32 province, sono già in carcere.

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