Il fardello dell’amicizia con Teheran

Aggiornato il 04/05/18 at 07:52 pm



di VITTORIO EMANUELE PARSI

 La geografia non fa sconti, e il Levante è davvero sulla soglia di casa dell’Italia. Quando il vicepremier israeliano definisce gli italiani «i migliori vicini di Israele» ci ricorda implicitamente che la nostra politica verso il Medio Oriente, diversamente da quella dell’Olanda o della Gran Bretagna, non può prescindere da questo dato. Una politica di vicinato non costringe a fare certe scelte a scapito di altre, ma impone un’attenta ponderazione di ogni singolo atto e di ogni singola dichiarazione. Questo è vero sempre. Lo è a maggior ragione per un’area come il Medio Oriente e per quel che riguarda il diritto di israeliani e palestinesi a vivere in pace e sicurezza.
Per molti decenni la politica mediorientale dell’Italia è stata orientata dal concetto di equidistanza: ha cercato di mantenere gli ottimi rapporti (d’affari e non) con il mondo arabo senza venir meno ai sentimenti di solidarietà verso Israele e il popolo ebraico. A chi obiettava che questa linea di comportamento finiva con l’essere troppo spesso concretamente sbilanciata a favore del mondo arabo e islamico, compresi quei governi più intransigenti nel rifiutare lo stesso diritto all’esistenza di Israele, veniva spesso risposto che era la geografia. Che era la necessità di buon vicinato, a dettare una prudenza così simile all’ignavia.
Con l’avvento di Berlusconi, le cose sono decisamente cambiate, e l’11 settembre e il sostegno politico alla guerra contro Saddam Hussein hanno contribuito a collocare progressivamente l’Italia tra gli amici di Israele. Del mutamento dei rapporti tra i due Paesi, non c’è forse indicatore più esplicito della richiesta, avanzata alcune settimane fa dal governo israeliano, di prolungare il periodo di comando italiano della missione Unifil 2. Si tratta del riconoscimento che l’azione di Unifil 2, di cui l’Italia fu prima promotrice con il governo Prodi, è ritenuta da Israele un utile contributo per la propria sicurezza. Non stupisce quindi né che lo stato delle relazioni dei due Paesi sia così eccellente, né che gli israeliani riconoscano a Berlusconi di aver contribuito a imprimere una svolta alla politica mediorientale dell’Italia, che ha finito con l’impegnare anche i governi di centrosinistra. Quando Berlusconi parla di «Israele nell’Unione Europea», rispolverando una vecchia idea del partito radicale, va oltre l’espressione del sentimento di amicizia per lo Stato ebraico, ed esplicita l’idea di una vera e propria alleanza, così forte e convinta da poter dar vita a una comune unità politica, basata sulla condivisione dei valori e delle istituzioni democratiche, oltre che sul richiamo alle «radici giudaico-cristiane della nostra civiltà».
Al di là della scarsa praticabilità di una simile opzione, occorre chiedersi se sarebbe nell’interesse israeliano una simile prospettiva, che faciliterebbe le accuse di «estraneità e artificialità» rivolte alla presenza di Israele nella regione dai suoi più acerrimi nemici. Tra questi ultimi, una posizione privilegiata spetta all’Iran, uno dei nostri migliori partner commerciali, con il cui governo l’Italia ha mantenuto sempre buoni rapporti. Fin quando l’Iraq di Saddam ne conteneva le mire egemoniche, e fin quando l’Italia perseguiva la politica dell’equidistanza, l’ingombro delle ottime relazioni italo-iraniane era tutto sommato tollerabile. Ma oggi, l’Iran ha un’influenza infinitamente maggiore sul Levante, e rappresenta una minaccia crescente per la sicurezza di Israele, oltre che per l’ordine regionale, il fardello di questa amicizia si fa sempre più pesante, e diventa addirittura insostenibile, se le parole di amicizia di Roma verso Tel Aviv vogliono essere prese sul serio. Non è un caso che il vicepremier israeliano chieda oggi agli italiani quello che si chiede agli amici. Ci invita alla coerenza e, piuttosto che filosofeggiare una futura casa comune, ci chiede un aiuto ora nel difendere la propria casa: cioè ci chiede di far seguire, alle parole, i fatti.
Fonte: La Stampa.it

 

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