Da Enduring Freedom alla minaccia Isis

Aggiornato il 03/05/18 at 04:40 pm


di Nino Orto
Per L’Indro.it
Ad undici anni dall’invasione statunitense dell’Iraq e dalla caduta di Saddam Hussein il vaso di Pandora iracheno esplode nuovamente, riportando alle cronache questa nazione e riesumando per Washington…… vecchi problemi mai risolti. Dopo la spettacolare offensiva dei jihadisti dell’Islamic State of Iraq and Sham nel Paese, il Presidente Barack Obama tentenna, promettendo aiuti ma ‘non troppi’ al Governo iracheno in previsione di una controffensiva governativa contro i militanti islamici. Tuttavia, nonostante il fenomeno ISIS possa sembrare un elemento nuovo nella geografia politica mediorientale, in realtà esso è la diretta conseguenza degli errori commessi dagli Stati Uniti nel 2003, all’alba della riedificazione del nuovo Stato iracheno.
In questo approfondimento di due puntate cercheremo di analizzare il perché, attraverso la ricostruzione storica della gestione statunitense dell’Iraq da Enduring Freedom fino al ritiro del 2011, passando per il Surge di Petreus, ed evidenziando i problemi irrisolti che ancora oggi affliggono il Paese mediorientale.
I ‘misunderstanding’ di Washington del 2003
Quando, il primo maggio del 2003, il Presidente americano George W. Bush pronunciava la fatidica formula ‘Mission Accomplished’ a bordo della portaerei americana USS Lincoln, pochi immaginavano che la consegna del dittatore Saddam Hussein alla Storia si sarebbe trasformato ben presto in un disastro umanitario per il Paese, nonché una trappola mortale per i marines americani impegnati nella campagna irachena. Eppure, da quando l’enorme statua del satrapo iracheno, in diretta mondiale, veniva abbattuta a Baghdad il 9 aprile di quello stesso anno, divenendo l’immagine simbolo della liberazione dell’Iraq, l’iniziale ottimismo statunitense era già scemato ed i problemi sul campo cominciavano ad essere impellenti. La repentina caduta del precedente apparato statale portava con sé numerose criticità, tra le quali spiccava per importanza quella legata alla sicurezza e al controllo dell’ordine pubblico nelle maggiori città irachene.

L’entrata delle truppe statunitensi nella capitale, e lo sfaldamento dell’Esercito di Saddam Hussein, aveva coinciso con l’inizio dei saccheggi degli edifici governativi e con lo scoppio della faida trasversale tra le vittime ed i rappresentanti del deposto regime. La totale disintegrazione della macchina di repressione che per quasi trent’anni aveva gestito qualsiasi aspetto della vita di ogni iracheno lasciava esplodere tutte le frustrazioni e i soprusi subiti dalla popolazione, in un clima di assoluta anarchia. Eppure, nonostante il livello di violenza nelle strade cominciasse a divenire ingestibile per le sole truppe americane, e sebbene la situazione stesse degenerando velocemente, Jay Garner, il primo Governatore dell’Iraq postbellico, rimase in Kuwait in attesa del via libera dalla Casa Bianca fino al ventuno di aprile, ovvero dodici giorni dopo la presa di Baghdad da parte dei marines.

In questi giorni vitali per il futuro della Nazione irachena, la mancata pianificazione della gestione strutturale e politica dell’occupazione riduceva in maniera sensibile l’efficacia delle politiche da attuare in ragione del vuoto di potere e, l’assenza di una reale visione strategica su come amministrare l’Iraq una volta caduto il dittatore iracheno, si palesava chiaramente con l’indecisione del Presidente Bush su come procedere al riguardo. A Washington era in corso una feroce battaglia tra le due anime dell’amministrazione repubblicana che, con visioni opposte riguardo il futuro dell’Iraq, cercavano di imporre la propria agenda politica. Da una parte, i pragmatici come Powell, erano fautori di un rapido passaggio del testimone ad un Governo iracheno ad interim, e premevano affinché si delegasse subito il potere politico ai partiti di opposizione. Di tutt’altro avviso i falchi neoconservatori, che combattevano affinché si stabilisse una efficace e duratura occupazione militare dell’Iraq.

Da quando il Presidente americano aveva dichiarato unilateralmente che la Nazione araba era parte integrante della guerra al terrorismo dopo l’attacco dell’11 Settembre, e faceva parte del gruppo degli Stati canaglia che fornivano appoggio al network mondiale di al-Qaeda, nell’establishment repubblicano prevaleva la ferma convinzione che l’Iraq, una volta deposto Saddam Hussein, divenisse una tabula rasa su cui gli Stati Uniti potevano riscrivere la propria visione del Grande Medio Oriente. Il processo decisionale in materia di sicurezza nazionale era ora modellato non solo in riferimento ad determinato problema, ma anche e soprattutto in base al più ampio contesto politico e strategico.

La nuova dottrina della guerra preventiva prevedeva infatti una vera e propria caccia globale al nemico e, a differenza della classica dottrina militare della deterrenza e del contenimento caratteristici della guerra fredda, l’annuncio della guerra unilaterale e l’invasione dell’Iraq aveva reso particolarmente controversa la questione, soprattutto per l’enfasi quasi ossessiva che l’amministrazione Bush poneva sul cambio di regime, nonchè per l’implicita affermazione che l’eccezionalismo americano dava a Washington non solo il diritto, ma il dovere di risolvere questo problema. Secondo gli strateghi statunitensi, abbattendo il regime baathista ed instaurando una democrazia filoamericana, il Paese sarebbe ben presto diventato il contrappeso fondamentale al sistema saudita nel mercato petrolifero mondiale determinando, nello stesso tempo, il pieno coinvolgimento della maggioranza sciita all’interno del nuovo esecutivo iracheno.

L’onda emotiva che sarebbe seguita alla destituzione del dittatore avrebbe poi agevolato in breve tempo una democratizzazione della società e delle sue Istituzioni. In questa prospettiva si fondono infatti due dimensioni che riguardano il fondamento stesso della politica di potenza degli Stati Uniti nella regione; da una parte riuscire a conciliare l’approvvigionamento garantito di petrolio con la sicurezza di Israele instaurando a Baghdad un regime alleato di Washington. La seconda, con l’eliminazione del tiranno iracheno, vorrebbe favorire la democrazia in un universo refrattario a quel tipo di cultura permettendo un cambiamento analogo nei paesi dell’area mediorientale. Queste due dimensioni, intersecabili, secondo la visione di Washington, avrebbero consentito di eliminare le cause profonde del terrorismo, ed annullare la minaccia proveniente dagli estremismi islamici.

Tuttavia, nonostante l’obiettivo principale fosse proprio il consenso della popolazione, la scarsa importanza attribuita prima e dopo il conflitto dall’Amministrazione americana alla natura della società civile irachena, ed ai problemi che gli Stati Uniti avrebbero dovuto affrontare dopo la destituzione di Saddam Hussein, finirono per essere il più forte elemento di incomprensione con la controparte locale nel processo di ricostruzione, ed un ostacolo pressoché insormontabile nel risolvere gli impellenti problemi del Paese. Sotto questo punto di vista, sono molte le persone che vedono in Ahmed Chalabi la causa di tutti gli errori americani nei confronti del Paese mediorientale e del conflitto del 2003. Fu Chalabi che persuase Cheney e i teorici del Pentagono sul fatto che le truppe americane sarebbero state accolte con entusiasmo dalla popolazione, omettendo sulle profonde divisioni etniche e confessionali dell’Iraq, e su altri numerosi problemi che sarebbero potuti insorgere con l’invasione. E fu ancora lui a far credere all’amministrazione Bush che le riserve petrolifere sarebbero bastate da sole a rifinanziare la ricostruzione del paese, che sarebbe diventato in breve un nuovo modello di democrazia per la regione.

Analizzando meglio i fatti tuttavia, emerge come Chalabi, in realtà, non appoggiò mai l’occupazione americana dell’Iraq che, secondo la sua corretta opinione, avrebbe generato una resistenza crescente. Nella sua richiesta a Washington anzi, non menzionava affatto l’occupazione del paese, ma premeva affinché si costituisse un Governo di unità nazionale subito dopo la caduta del rais. Non tutta l’amministrazione repubblicana era però dello stesso parere. Il funzionario statunitense Jay Garner, che aveva molta dimestichezza con il paese avendo lavorato a stretto contatto con l’autorità curda del nord Iraq fin dalla prima guerra del Golfo, faceva parte della schiera di quelli che volevano fin da subito formare un Governo di transizione iracheno che nel giro di qualche settimana si assumesse la responsabilità del paese. Il nucleo per un Esecutivo simile esisteva già e non era difficile inizialmente implementarlo con le nascenti forze politiche post-occupazione.

Nel Dicembre 2002, l’opposizione irachena si era incontrata a Londra, ed i partiti presenti avevano eletto un Consiglio direttivo che agisse in loro vece. Il Direttorio era costituito da due leader curdi, Talabani e Barzani, dagli esponenti dei maggiori partiti sciiti in esilio, Abdul Aziz Al Hakim dello SCIRI e Brahim Jaafari del partito Dawa, dai leader arabi laici Ahmed Chalabi del Congresso nazionale iracheno e Iyad Allawi dell’Accordo nazionale iracheno. Il Consiglio direttivo rappresentava bene gli sciiti e i curdi iracheni ma non considerava i sunniti, che erano in gran parte contrari al cambiamento di regime e che non volevano schierarsi contro il rais. Eppure, nonostante la base deficitaria, in quell’incontro di Londra l’intenzione era di formare un governo iracheno alternativo che potesse assumere il potere subito dopo la caduta del regime, avviando le trattative tra le parti locali, specialmente sunnite, ed evitando una prolungata occupazione militare del paese. Ma, la formazione di un governo alternativo che poteva rapidamente svincolarsi da Washington e minacciare la stessa presenza americana nel paese non rientrava nei piani dell’amministrazione statunitense, che di fatto impedì qualsiasi tentativo di Chalabi di costruire alleanze allo scopo di gestire il potere una volta destituito Saddam.

Nonostante le opzioni sul campo fossero poco decifrabili, e le politiche da attuare in ragione della storia del paese e della situazione socio-politica presente all’interno consigliavano di astenersi da qualsiasi azione unilaterale, Rumsfeld nominò in fretta e furia Paul Bremer come nuovo governatore dell’Iraq, rovesciando nel giro di poche settimane tutti i paradigmi strategici del Pentagono rispetto al predecessore Garner. A questo punto tutto subisce una brusca accelerazione. Bremer atterrava a Baghdad il 12 Maggio 2003 ed eseguiva la sua prima ordinanza come Governatore dell’Iraq dopo appena quattro giorni, il 16 Maggio, dichiarando fuori legge il partito di Stato e vietando a chi aveva lavorato nei primi quattro livelli del partito baathista di essere impiegato nel governo. Il 23 Maggio firmava un secondo decreto che scioglieva l’Esercito iracheno, l’Aereonautica e la Marina militari, la polizia segreta, i servizi di intelligence, le guardie repubblicane, le milizie baathiste e il ministero della Difesa.

In poche righe scritte, con cui si distruggevano le fondamenta dello Stato iracheno, si avviava la prima fase della disgregazione politica e sociale dell’intera nazione, cominciando la lunga serie di macroscopici fraintendimenti dei funzionari statunitensi nella gestione del periodo successivo alla caduta di Saddam e al crollo delle istituzioni irachene. Uno di questi, fu la scelta di smembrare il partito di Stato e l’apparato di sicurezza iracheno, atto con cui gli amministratori statunitensi considerarono i fattori endogeni della società civile come ininfluenti ai fini della ricostruzione politica. L’aver posto sullo stesso piano semplici funzionari iscritti al partito per necessità lavorativa agli esperti e brutali guerriglieri di al-Qaeda, fu infatti un azzardo che diventerà poi il collante su cui si innesterà l’insurrezione sunnita e jihadista nel Paese. Lo scioglimento del Partito Baath comportò non solo una ghettizzazione e demonizzazione della minoranza sunnita che fino ad allora aveva gestito un paese a maggioranza sciita, ma rappresentò soprattutto la rapida scomparsa delle élite urbane e cosmopolite del Paese che, dopo l’ordinanza, cominciarono ad emigrare verso i paesi arabi confinanti.

Un intera classe dirigente formata dall’alta borghesia di Baghdad, da professionisti, da professori universitari, da intellettuali, improvvisamente divenne un obiettivo legalizzato dagli Stati Uniti per tutti gli oppositori del precedente regime, sunniti compresi. Quella che doveva essere la spina dorsale di un nuovo Iraq democratico e pluralista diventava così la prima vittima della gestione post-bellica del governatore americano. Inoltre, se nessuno poteva contestare il fatto che il vecchio regime del partito Baath dovesse rispondere per gli ultimi tre decenni di terrore in Iraq, le politiche che mossero l’amministrazione Bush furono certamente ispirate dall’ideologia piuttosto che dal pragmatismo e dal buon senso. Esse non consideravano la catena di comando all’interno del partito di Stato e dei diversi livelli di colpevolezza tra i milioni di membri.

Non fu presa in considerazione alcuna possibilità di una riconciliazione nazionale tra gli ex-baathisti ed il resto della popolazione. In un solo giorno, quasi mezzo milione di dipendenti pubblici, soldati, ufficiali, furono licenziati senza alcun compenso, alimentando l’odio di una intera comunità. La Casa Bianca, persuasa che la transizione sarebbe avvenuta armoniosamente fra il trionfo militare e la costruzione democratica, aveva semplicemente omesso di tener conto dell’evoluzione dei reali rapporti di forza alla base della comunità che essa privava, con la destituzione di Saddam, della propria centralità nello scacchiere politico. Lo scarto fra gli obiettivi del presidente Bush e gli scarsi mezzi impiegati per raggiungerli, insieme alla insufficiente conoscenza della realtà sociale irachena, sarà poi all’origine del caos nel quale l’occupazione è precipitata dopo la vittoria militare contro le forze di Saddam.

La difficile partita confessionale: le elezioni del 2005 e l’inizio del biennio di sangue

Sorgeva, tra l’altro, un ulteriore problema, poiché i partiti d’opposizione, nonostante fossero stati uniti contro la dittatura di Saddam, erano ora in disaccordo sul futuro della Nazione. Gli sciiti volevano uno Stato islamico, i curdi chiedevano di preservare la semi-indipendenza del Kurdistan, gli arabi laici aspiravano ad essere a capo di un forte Governo centrale. Di certo, fin dall’inizio l’amministrazione Bush favorì tali divisioni poiché, cercando di mantenere e gestire il controllo della transizione politica in Iraq, ed introducendo il cleavage etnico-settario nella ripartizione delle cariche e nomine all’interno delle istituzioni statali e dei partiti politici, esacerbò ulteriormente le tensioni fra le comunità. La scelta statunitense di gestire in prima linea la ricostruzione e la pacificazione del Paese, insieme alla distruzione dell’apparato statale di Saddam e alla scelta confessionale per la gestione politica, significò un vero e proprio collasso di tutta la società civile.

Con il loro intervento militare senza una chiara politica di ricostruzione, gli Stati Uniti avevano liberato delle forze sociali e politiche fino ad allora estranee a qualsiasi tipo di gestione non autoritaria, determinando in breve la distruzione del tessuto politico che si voleva ricreare dopo l’abbattimento del regime. Questo si trasformò rapidamente in un campo di battaglia in cui le diverse comunità presenti in Iraq semplicemente cercavano maggiore potere e denaro per la propria fazione. A sua volta, la furiosa lotta per l’accaparramento del potere, mostrava chiaramente che i partiti politici rappresentati dalla Autorità provvisoria creata dagli americani non erano propensi alla condivisione del potere, aggravando così la tendenza confessionale e il risentimento della popolazione verso l’occupante e il governo considerato fantoccio.

Riassumendo, quello che è successo dal 2003 in poi è stato un graduale ma inesorabile scivolamento verso la guerra civile tra le maggiori fazioni presenti nel paese ed è stato il risultato di tre fattori concomitanti:

– l’aumento generalizzato della violenza nel Paese.

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